La Nuova Sardegna

Mezzo secolo di suoni Storia degli album cult che festeggiano 50 anni

di Andrea Massidda
Mezzo secolo di suoni Storia degli album cult che festeggiano 50 anni

Da “Let it be” dei Beatles a “Bitches brew” di Miles Davis passando per “Abraxas” di Santana e “Led Zeppelin III”

25 marzo 2020
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Dai Beatles ai Led Zeppelin, da Cat Stevens a Miles Davis, dai Pink Floyd a Carlos Santana. È piuttosto variegato l’elenco degli artisti, anche quelli scomparsi, che esattamente mezzo secolo fa firmarono alcuni degli album più celebri della storia della musica, talvolta dei veri e propri spartiacque. E anche se questo tormentato 2020 può sembrare l’anno meno adatto per simili celebrazioni, a ben vedere non c’è modo migliore per omaggiare queste produzioni straordinarie che raccontarne la genesi con l’obiettivo di scoprirle o di riascoltarle facendole magari conoscere a figli e nipoti.

Non fosse altro per l’estrema popolarità del disco e della band, il primo album della lista è certamente “Let it be” dei Beatles , uscito l’8 maggio del 1970, cioè un mese dopo che Paul McCartney aveva ufficializzato lo scioglimento del gruppo per via dei sempre più frequenti contrasti interni, dovuti anche alla presenza ingombrante della nuova compagna di Lennon, Yoko Ono. Più che un long playing fu un atto finale, dunque, che tuttavia regalò al planetario pubblico dei Fab Four almeno due capolavori: la title tracks “Let it be”, in primis, ispirata da un sogno di Paul, dove la madre – mother Mary, morta quando lui era appena adolescente – lo sprona a non scoraggiarsi davanti alle difficoltà. «È una canzone positiva – rivelò McCartney –, lei era venuta a dirmi che sarebbe andato tutto bene». Andrà tutto bene. Mentre l’altro brano entrato nella leggenda è “Get back”, dove il pop cede il posto al rock: ancora oggi i critici discutono se la canzone fosse una satira antirazzista o se quel verso «get back to where you once belonged» (sostanzialmente, tornatene da dove sei venuto/a) si riferisse a un immigrato o a Yoko Ono.

Per quanto riguarda il jazz, impossibile non ricordare l’album “Bitches brew” di Miles Davis, che dal 1970 ridefinì il campo della musica afro-americana e influenzò intere generazioni di artisti e di ascoltatori. «Mentre si ripulivano i prati di Woodstock – scrivono Enrico Merlin e Veniero Rizzardi in un loro bel saggio sull’argomento – Miles Davis portò in studio un’orchestra senza precedenti: tredici solisti con chitarre e tastiere elettriche, quattro percussionisti, un clarinetto basso, un sax soprano. Con qualche appunto sulla carta e dopo solo una serata di prove, in tre mattine si registrò un disco la cui portata storica fu subito chiara. Era ancora jazz? Molti parlavano del capostipite di un nuovo genere musicale che fondeva le sottigliezze improvvisative del jazz con l’energia del rock».

Nella golden list dei classici che compiono cinquant’anni merita necessariamente un posto d’onore l’album “Abraxas” di Carlos Santana, risultato di una perfetta fusione tra suono tipico latino e rock and roll contaminato da influenze blues e jazz. Pensato per essere un disco interlocutorio, con storici pezzi di mambo ed esperimenti di latin-jazz, divenne invece, come è stato più volte sottolineato, «l’atto di nascita della poesia delle mescolanze». Quasi senza saperlo, il chitarrista messicano naturalizzato statunitense inventò insieme ai suo compagni di viaggio la world music. Considerato spesso come il migliore tra gli album di Santana, ebbe un enorme successo internazionale proprio per la sua miscela di influenze latine con temi rock caratterizzati da overdrive di chitarra elettrica e organo. Tra i brani indimenticabili restano di sicuro “Samba pa ti”, “Incident at Neshabur” e “Oye come va”.

Cambiando nettamente genere ma restando tra i dischi cult nati mezzo secolo fa, è impossibile non citare “Tea for the Tillerman” del cantautore britannico (ma di origini cipriote) Cat Stevens, cresciuto a Londra in Shaftesbury Avenue, tra Picadilly Circus e Soho, dove sopra il ristorante di proprietà del padre veniva spesso suonata musica popolare greca, dalla quale verrà influenzato. Da questo album di eccezionale bellezza emergono brani intramontabili come “Father and son”, “Wild world” e “Where do the children play?” .

In quell’anno musicalmente di grazia che fu il 1970 nel mondo vennero incisi moltissimi dischi di grande successo. Ma pochi tra questi lasciarono un segno come “Led Zeppelin III”, terzo album della rock band inglese. Si narra che per ricercare la giusta ispirazione i due frontmen del gruppo, Robert Plant e Jimmy Page, si ritirarono in una remota località tra i monti del Galles, all’interno di un cottage immerso nel verde in cui non era disponibile neppure l’elettricità. E questa potrebbe essere la spiegazione delle caratteristiche acustiche di brani come “Gallows Pole” e “Bron-Y-Aur Stomp”, con forti richiami al folk britannico. Chiude questa hit parade – ultimo, ma non certo per importanza – l’album “Atom heart mother”, che inaugurò la seconda fase della storia dei Pink Floyd, quella del progressive rock, segnando un punto di svolta nella loro carriera. Famosissima la copertina, ispirata dalla carta da parati con le mucche di Andy Warhol

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