La Nuova Sardegna

Edina Altara, la difficile strada delle artiste

di SONIA BORSATO
Edina Altara, la difficile strada delle artiste

Domani 3 aprile con la Nuova l'ultimo libro della collana sui Maestri dell'arte sarda

02 aprile 2020
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Nel 1971 veniva pubblicato su Artnews un saggio di Linda Nochlin destinato a scuotere l’opinione pubblica, riflessione che smontava preconcetti inseriti in un costrutto culturale resistente perché apparentemente assodato. «Why have there been no great women artist?» (Perchè non ci sono state grandi artiste?) pamphlet rigoroso e ironico, sottolineava due aspetti fondamentali: una (apparente) assenza delle donne dal panorama artistico ma, soprattutto, un attacco all’impostazione critico-politica dell’intero fronte culturale.

Il rischio, secondo la Nochlin, era di concentrarsi sul “chi” trascurando il “come”, ovvero il contesto in cui le autrici si erano inserite e con quanta fatica, con che modalità, con quali risposte di pubblico e critica. Alla base di tutto, una consapevolezza: non un fattore ormonale, non mancanza di genio o ispirazione sono stati il limite di brillanti carriere ma una impostazione critica fortemente fallocentrica dove la fortuna di nascere “maschio di razza bianca” ha costituito una conditio sine qua non per essere presi in seria considerazione. Questa riflessione può fare da preambolo alla vicenda umana e artistica di Edina Altara, brillante nome del firmamento non solo isolano ma nazionale che attraversa il Novecento esprimendo un genio eterogeneo, generoso, rigoroso quanto curioso.

Le tappe della sua carriera sono ripercorse con cura e attenzione nel testo redatto da Giuliana Altea che restituisce il fascino di una professione intesa come scelta di vita: l’esordio precoce, il passo consapevole accanto a grandi autori, compagni di strada e di sentimenti, i maestri, gli amici, i committenti, l’amore. E l’arte. L’arte, sempre l’arte guidata da quello che l’Altea definisce un “capriccioso eclettismo”. Illustratrice, pittrice, ceramista, designer, l’Altara si è spinta in vari ambiti creativi prediligendo, spesso, quelli a cui il Modernismo negava dignità e che venivano dunque sospinti verso i confini dell’arte stessa.

Avendo scelto di lavorare a Milano, dopo un primo periodo in Piemonte (prima a seguito del padre e poi per il matrimonio con Max Ninon), Altara allenta i suoi rapporti con il contesto isolano e si confronta con uno scenario artistico in cui gli spazi dedicati alle donne sono alquanto esigui. È in questa zona d’ombra che si srotola la sua epopea esistenziale, la sua triplice emarginazione in quanto sarda, “decoratrice”– dedita cioè a una produzione laterale, minore – ma soprattutto donna.

All’inizio del Novecento la donna era ancora ritenuta una figura ambivalente: priva di controllo razionale, godeva di freschezza di sguardo e innocenza nell’approccio. Alle artiste era concessa la strada del capriccio e della leggerezza, come espressamente detto da Raffaello Giolli che proprio per l’Altara ebbe parole di audace ammirazione: «sembra, così gaia e giovane, avere l’ingenuità maliziosa dei suoi piccoli bambini di carta».

Vezzosa, bellissima, magnetica – come ce la restituiscono le immagini dell’epoca – apparentemente inconsapevole del suo fare, crea attorno a sé il mito della donna-bambina guidata da un gusto interiore, dal «bisogno di veder nascere qualche cosa dalle mie mani». Ingenuità però non così autentica e lei, forse, non così inconsapevole se ricordiamo che a farle da maestro era stato Giuseppe Biasi. Basta guardare i suoi lavori, fin dai primi esordi, per scorgere non solo l’aderenza alla cultura del momento ma la consapevole rielaborazione, la matura metabolizzazione delle correnti che attraversavano l’inizio secolo.

Freschezza, certo, ma maturità; slancio ma anche ingegno. Il suo lavoro può reggere confronti importanti, tra i contemporanei ma anche con i grandi dell’arte che l’hanno preceduta. Eppure Vittorio Pica, eminente voce della critica milanese, non potendo negare l’evidente successo, si domanda se questi alti risultati non siano dovuti a «la simpatia suscitata dalla giovanissima età dell’autrice e l’ammirazione per la leggiadria della sua snella personcina e per la luminosità dei suoi occhi neri».

Si allunga il sospetto della consapevolezza del ruolo, della maschera da indossare per “stare al gioco”, per sedere al tavolo degli uomini; artista dal talento indiscusso eppure vittima di una subalternità di cui tutte le donne pagavano scotto, fino a sentirne intimamente giuste le motivazioni, fino a farle proprie come inevitabili: «non mi illudo, il mio successo è stato determinato dalla curiosità» dichiara lei stessa a Remo Branca. L’arte è sempre l’esito di una situazione sociale, della cui struttura è un ingrediente essenziale e se le grandi conquiste sono cosa ardua ancor più lo è la lotta contro il paternalismo, l’oscurantismo intellettuale e i conseguenti demoni dell’autostima. Oltre ad una grande lezione di storia dell’arte, un affascinante viaggio tra illustrazione e mondo della moda, interior design e bizzarrie, la vicenda di Edina Altara ci riporta anche a questo: al lungo percorso che le donne – artiste, scrittrici, poetesse, intellettuali ma non solo – hanno fatto e ancora devono fare (dietro le recensioni fatte all’Altara sembrano riecheggiare recenti commenti a giornaliste) per poter essere semplicemente se stesse: mediocri, in qualche caso, oppure, audacemente grandissime.

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