La Nuova Sardegna

Bari Sardo, pasta dura: una magia nelle mani di zia Grazia

di GIUSY FERRELI
Bari Sardo, pasta dura: una magia nelle mani di zia Grazia

Incontro con la “regina” del pane ogliastrino cotto nel forno a legna A 92 anni ogni giorno impasta con le regole imparate da “piciocchedda”

11 maggio 2020
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BARI SARDO. Tra le sue mani l’impasto, rimasto a lievitare per diverse ore secondo una antica ricetta, prende forma. E si trasforma nella “pasta dura”. Lo stesso miracolo avviene quando, con una forza inaspettata, modella “su moddizzosu de patata”. Zia Grazia Angius, sulla soglia dei 92 anni, sorride e impartisce lezioni di panificazione e di vita. «Quando impari qualcosa da piciocchedda pittica non te lo dimentichi più, neanche alla mia età» risponde, sorniona, ai figli che non si capacitano di come quelle stesse mani che hanno lavorato duramente tra filari di ortaggi nell’azienda di famiglia, riescano ancora a danzare leggere sopra il tavolo da lavoro.

È un rituale pervaso di sacralità al quale zia Grazietta di Bari Sardo non si sottrae. Ogni qualvolta ci sia da impastare e infornare, e le occasioni in questa lungo periodo di isolamento, non sono mancate, si mette all’opera. È lei a dettare i ritmi della panificazione già dalla preparazione dell’impasto. Per il pane bianco serve semola, lievito madre (“su framentu”), acqua e sale mentre per “su moddizzosu” si devono aggiungere le patate. Quando era più giovane e doveva portare in tavola il pane quotidiano e il pistoccu per la sua famiglia – suo marito Luigi Arra e i suoi quattro figli maschi – impastava a mano.

Ora la tecnologia arriva in soccorso ma i segreti sono quelli tramandati di generazione in generazione. Ma quali sono questi segreti? «Bisogna rispettare i tempi: quello della lievitazione innanzitutto, poi quello della lavorazione. Bisogna aspettare che il forno raggiunga la giusta temperatura e stare attenti ai tempi della cottura» dice zia Graziedda. Il tempo non manca, la pazienza neppure. Ed eccola, dopo aver atteso che l’impasto lieviti per almeno 5, 6 ore, mettersi all’opera per lavorare l’impasto. Ora, infatti, bisogna “crasiai” su pani. Energiche carezze che nel caso di zia Grazia sono lunghe e ripetute.

La pasta passa per almeno una cinquantina di volte nella macchinetta prima di essere modellata a dovere. E a questo punto si può sbizzarrire con “is pitzicorrus”, le creste che caratterizzano la “pasta dura” ogliastrina realizzate con la rotella e le forbici. C’è un altro rito al quale zia Grazia non si sottrae: la realizzazione de “sa melongiana”. Prima di fare le decorazioni prende un pezzo di pasta, lo modella e lo mette al centro del panetto che attende di prendere la forma definitiva. È una sorta di cuore del pane, visibile quando la “pasta dura” si spezza in due.

Più semplice la procedura per “su moddizzosu”. «Per una quindicina di chili di prodotto finito si aggiungono tre chili di patate bollite».

Altro fondamentale passaggio: l’accensione del forno a legna. La capiente struttura in muratura inghiotte il legno di ulivo, arrivato dalla potatura della piante dell’azienda di famiglia, e il legno di lentischio che rilascia un profumo inconfondibile. Anche per pulire il forno si usa una ramazza di lentischio fresco. L’ultima infornata, una decina di chili di fragrante pasta dura, è durata pochissimo distribuita equamente tra familiari e vicini. Quando si prepara “su moddizzosu” si arriva ad quindicina di chili.

Per il pistoccu (confezionato alla maniera bariese e quindi senza patate) si arriva a una ventina di chili. Eppure non sempre il pane casereccio di zia Grazia ha riscosso il successo che meritava. «I miei quattro figli – dice – da bambini desideravano le rosette». Circostanza questa confermata da suo figlio Vito. «È vero, guardavo con invidia i miei compagnetti che addentavano i panini». Altri tempi. Ora i suoi “ragazzi” non riescono a rinunciare a quel pane. E così, vivono l’antico rito come una festa. Soprattutto in questi tempi bui di Coronavirus.
 

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