La Nuova Sardegna

«Luigi Nono, la rivoluzione del linguaggio»

«Luigi Nono, la rivoluzione del linguaggio»

Massimo Cacciari e il grande compositore in un colloquio con gli studenti dell’Azuni

11 maggio 2020
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L’appuntamento su Skype è per le 12, ma noi siamo tutti davanti al pc un’ora prima. Un po’ preoccupati. Già, perché questa volta il nostro interlocutore è il prof. Massimo Cacciari. Ciò richiede preparazione e attenzione. La sera sarà ospite dalla Gruber: per adesso è con noi! Ci ha concesso un’intervista in qualità di amico e collaboratore di Luigi Nono. Conosce i dettagli della nostra recente visita all’archivio Nono a Venezia e dell’incontro e successiva intervista a Nuria Schoenberg Nono (pubblicata su La Nuova il 5 aprile).

Nel ricostruire le vicende che ruotano attorno al “Prometeo”, capolavoro del compositore veneziano, desideriamo congiungere le tessere di questo mosaico musicale partendo da colui che si è occupato della stesura dei testi dell’opera. Cacciari, noto filosofo da sempre impegnato nella vita politica e culturale, ma, soprattutto, grande amico di Luigi Nono. Un’amicizia di lunga data, una frequentazione che porterà alla profonda e radicata cooperazione nella stesura dell’opera.

Come è nato l’incontro con il Maestro Luigi Nono e qual è stata la richiesta ricevuta per scrivere il libretto del “Prometeo”?

«La collaborazione per il “Prometeo” è stata uno dei momenti, ma Luigi Nono l’ho conosciuto che frequentavo ancora il Liceo da giovanissimo. In seguito abbiamo continuato a vederci e a lavorare insieme in tantissimi campi, dalla collaborazione culturale alla politica. È stata una frequentazione quotidiana per una vita, per oltre trent’anni. “Prometeo” nasce da questa frequentazione e collaborazione, non c’è niente di particolare che l’abbia promosso. Era una delle tante cose che naturalmente nascono da un’amicizia e da una collaborazione, frutto di letture ed esperienze comuni».

Il suo ruolo da librettista durante la stesura è stato in qualche modo condizionato da Nono?

«No, non c’entra niente il libretto. Non è un libretto. L’abbiamo spiegato diverse volte. È il frutto di letture comuni, di commenti a queste letture di vari autori, che sono andate avanti per anni, dato il rapporto che c’era fra di noi; da queste letture e testi io ho estrapolato alcuni termini, frasi, passaggi, alcune parole chiave con Nono, facendo in modo che questo insieme di parole creasse quasi dei contesti già sonori, che potessero non tradursi poi come i testi di un libretto, ma fossero un accompagnamento della struttura musicale e della forma musicale. Questo è stato, non ha niente a che fare con un libretto. Sono testi come nel “Quartetto” di Nono, dove nella partitura ci sono delle citazioni di Hölderlin per le quali Nono diceva che gli autori e gli esecutori dovevano prestare orecchio mentre suonavano. Il frutto di letture e discorsi comuni, ma non è assolutamente un libretto».

Nella visita che abbiamo fatto a Venezia, la signora Schönberg ci ha raccontato che a Luigi Nono il “Prometeo” è costato dieci anni di lavoro. Abbiamo visto tantissimo materiale preparatorio. Anche lei ha condiviso tutto questo tempo?»

«Certo, la prima idea nasce insieme con i testi che porgo a Nono intorno alla figura di Prometeo, esattamente subito dopo “Al gran sole carico d’amore”, nel ’75-’76; poi si è continuato a lavorare insieme. C’è il mio frammento del “Prometeo” che mi pare sia del 1980, la prima opera di Nono e il primo testo di Nono che esplicitamente si riferisce al progetto del “Prometeo” che viene eseguito a Venezia nell’81. Ma in quegli anni poi si lavora a tante altre cose, dal “Das Atmende” al “Diario Polacco”».

Una domanda sulla figura di Nono: la signora Schönberg ci raccontava che durante le prove lui aveva un’interazione con i musicisti molto profonda. Anche per lei questo è accaduto?

«Praticamente ogni esecuzione era reinventare l’opera; quindi le esigenze che Nono aveva, di collaborazione e cooperazione da parte degli esecutori, erano straordinarie. Si trattava non di eseguire bene, ma di reinventare con lui, a seconda anche delle condizioni dello spazio in cui si trovava. Quindi c’erano tensioni e a volte (ride, ndr). Ricordo una volta a Perugia che insorse, durante l’esecuzione, contro il povero Albert perché non faceva le cose che voleva e, durante l’esecuzione, prese a malissime parole Albert. C’era una affinità, un’amicizia, una collaborazione straordinaria; non erano esecutori in nessun modo (Fabbriciani, Scarponi…); i cantanti, non erano assolutamente esecutori. Collaboravano tutti alla partitura».

Nel suo saggio “Verso Prometeo” lei parla del tema dell’ascolto. Ci può spiegare il rapporto tra il testo e questa spazializzazione. Che influenze ha nell’ascolto?

«Ripeto, il testo non ha alcun valore in sé. Il testo ha un valore nella misura in cui ha influenzato la concezione musicale di Nono. Il testo ha un valore nella misura in cui ha ispirato il discorso musicale e l’idea complessiva dell’opera. Va letto prima e bisogna sentire le parole di quegli autori, come furono composte durante l’ascolto, ma non devono assolutamente distrarre dall’ascolto musicale. Quando vedi un’opera, tu cerchi di capire cosa dicono questi “benedetti” cantanti, non c’è niente da fare. No! Non devi andare in cerca di capire il Prometeo...»

È il fonema che conta…

«È il fonema che conta, è il segno sonoro totalmente risolto dentro la musica».

È attuale quest’opera?

«Direi di sì, come altre grandi opere di Nono. Quella che forse io amo di più… certi momenti del “Prometeo” sono altissimi, ma come tensione complessiva, in un opera più breve dell’ultimo periodo, accanto al “Quartetto” che, per me, forse è il capolavoro di Nono, è il “Diario Polacco”, come tensione drammatica, ancora più del “Prometeo”. La trovo nel “Diario Polacco”, l’attualità: la tragedia dell’epoca. Nono è un autore tragico; i suoi drammi hanno questa caratteristica. Anche “Intollertanza”. In “Gran Sole c’è più un elemento utopico”, no? Ma “Intolleranza”... per tanti versi il “Prometeo” si ricollega più ad “Intollertanza”, a mio avviso, che a “Gran Sole”. Questo elemento tragico e drammatico, questa simpatia, nel senso della co-sofferenza con le vicende del tempo. L’elemento di invettiva e di denuncia che c’è in tutto Nono, al di là dei diversi momenti della sua evoluzione musicale: questo elemento di invettiva e denuncia.

Anche nella “Fabbrica Illuminata”?

«Anche nella “Fabbrica Illuminata” chiaramente. Quel periodo di Nono è completamente diverso dal periodo del “Prometeo”, anche se simili dal punto di vista della struttura tecnica dell’opera. Ma, comunque ci sono degli elementi permanenti in Nono: l’invettiva, la denuncia sono elementi permanenti in Nono. E l’elegia. Nono è un grande autore elegiaco, nel senso etimologico del termine elegia. “Das Atmende Klarsein” è una grande elegia. Tutti questi sono elementi che, secondo me, sono consustanziali ad un’opera contemporanea. Come fai a non essere elegiaco? Come fai a non sentire in te la necessità dell’invettiva oggi? Quello che Nono non è mai è essere malinconico. La malinconia non c’è in Nono, c’è la nostalgia, c’è la volontà di andare, c’è il pianto, l’elegia, c’è l’invettiva; ma non c’è mai malinconia, non c’è mai resa in Nono, non c’è mai indugio in Nono. C’è sempre questa volontà di sperimentare, di fare, di andare».

Questa volontà è anche legata all’impegno sociale di Nono.

«Sì, ma impegno è un termine vago, generico. Nono sapeva benissimo che l’impegno, di per sé, non significa niente. Per ogni artista l’impegno è di trasformare il proprio linguaggio, di rivoluzionarlo. Questo è l’impegno nell’artista. Non può esserci un’ideologia rivoluzionaria che si traduce in un linguaggio di conservazione: è una contraddizione in termini. Quindi l’essere rivoluzionario di Nono, il suo impegno, doveva tradursi costantemente nel rinnovare il proprio linguaggio musicale».

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