La Nuova Sardegna

Dialogo con Antonella Anedda 

È presto per scrivere di pandemia in versi

È presto per scrivere di pandemia in versi

di MARCELLO FOIS

20 maggio 2020
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Antonella Anedda Angioy è considerata tra le più importanti voci della poesia contemporanea, tradotta nelle principali lingue. Un dottorato ad Oxford, l’insegnamento all’università di Lugano la recente assegnazione di un dottorato honoris causa assegnato dalla Sorbona di Parigi, le traduzioni in inglese di un gigante come Jamie McKendrick testimoniano quanto questa magnifica poetessa sia apprezzata all’estero. Tuttavia non si può dire che Antonella Anedda Angioy sia ignorata nel nostro Paese dove è pubblicata dalle maggiori case editrici e ha ricevuto una serie lunghissima di riconoscimenti.

Ma i suoi inizi come sono stati?

“Lenti. Ho pubblicato tardi, in una rubrica di poesia che si chiamava così: “I poeti di trent’anni”.

Può raccontarci come si è innestato in lei il seme della poesia? Quando ha percepito di essere terreno fertile per quell’attitudine: è un caso, un modo specifico di guardare, che cosa?

‘‘

Credo ci sia stato un cortocircuito tra

l’osservazione e la lettura. Ero ragazzina

e un giorno mi sono accorta che la lettura di un testo poetico mi permetteva di intensificare la realtà. Nulla di mistico, non una visione, un andare oltre, anzi, ma un vedere diversamente, obliquamente. Il testo era uno spazio in cui potevano dialogare forze diverse”.

Ma gli inizi veri? Quelli proustiani, quelli dell’infanzia? Che bambina era Antonella?

“Ero molto tranquilla, credo, andavo molto bene in alcune materie, mi piaceva la geometria e la filosofia, non avevo voti altissimi in italiano, erano i tempi dei temi impegnati, ma amavo molto il latino e il greco, soprattutto il greco. Ero tranquilla, ma come tutte le persone tranquille soggetta a improvvisi attacchi d’ira. Sono ancora iraconda, a sorpresa, mi sorprendo anche io, mi passa subito, però chi non mi conosce resta spiazzato. Mi ricordo lo sconcerto della maestra che in seconda elementare aveva chiamato i miei genitori perché avevo morsicato un compagno di scuola di colpo e non mollavo la presa. Però lui mi voleva mettere in fila e ogni volta mi ero spostata, il messaggio era: preferirei di no, poi mi aveva spinta e l’ho morso”.

Ho sempre pensato alla poesia come la palestra del linguaggio e ai poeti come personal trainer della parola. Voi siete quelli che rendete tonici i lemmi, noi narratori in genere li riceviamo belli allenati e arricchiti di significati grazie al vostro lavoro.

“È un punto di vista interessante, ma si potrebbe anche dire che nella narrazione chi scrive poesia trova una importante riflessione sullo spazio, sulla necessità dell’architettura e il lavoro sul linguaggio riguarda entrambi, penso all’Ulisse di Joyce: tempo-spazio-linguaggio tutto intrecciato e calibrato per restituire, per intensificare la vita. Questo è importante, almeno per me, che un testo sia vivo”.

Mi pare che questi tempi di “distanza e solitudine” obbligati assomiglino non poco al tempo dei poeti, c’è un che di profondamente letterario in questa stagione epidemica, qualcosa che ci costringe a fare i conti con noi stessi. Come coniuga questa dimensione sospesa e d’attesa una grandissima poetessa come lei?

‘‘

È una questione complessa.

La condizione che stiamo vivendo

mi preoccupa molto da un punto di vista medico, economico e politico, credo sia fondamentale circoscriverla e che almeno per ora la forma più adatta a parlarne sia la cronaca, le meravigliose istantanee, i fumetti di Zero Calcare. La poesia ha bisogno di tempo, di sedimentazione, appunto di distanza anche dalle proprie emozioni. Chi scrive fa sempre i conti con se stesso e con la sospensione. Distanza e solitudine non mi pesano, e – credo che lei mi capisca - sono, siamo abbastanza selvatici da non soffrire per questo. Certo mi mancano gli alberi, l’ acqua, il non poter nuotare e abbracciare mio padre che è anziano. Per tornare alla preoccupazione politica, riguarda soprattutto i diritti umani, sono indignata che le notizie, certo, importantissime, intorno al virus, stiano facendo passare sotto silenzio altre tragedie, ingiustizie. Un esempio: chi parla più di Patrick Zaki, il ricercatore che langue nelle carceri egiziane?”.

Oggi tanti sentono di potersi definire poeti, ma quello non è un traguardo tanto semplice da raggiungere. Ho letto da qualche parte che fare poesia è un lavoro che si assume per acclamazione. Lei quando ha capito che era diventata poetessa?

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Acclamazione? La parola a proposito

della poesia (e non solo) fa sorridere.

Sono d’accordo invece sul termine lavoro, è un lavoro fatto di concentrazione, esperimenti, tagli, suture, avanzamenti, retrocessioni, di nuovo avanzamenti, fallimenti e così via. Fare poesia è – penso - far fronte a tutto questo e allo stesso tempo si nutre anche di letture distanti dalla letteratura. Ho un marito medico e credo che questo spalanchi una diversa prospettiva”.

In uno dei suoi versi lei dice che «restiamo in carica per poco», quanto bisogna concentrarsi per lasciare un segno? E per quale verso le piacerebbe lasciare un segno?

‘‘

«Restiamo in carica per poco» era

una riflessione sulla caducità della vita

e di ogni presunta fama. Dimentichiamo troppo spesso che siamo mortali, pensiamo di essere eterni e soprattutto di essere al centro del mondo, invece che siamo effimeri. Questo però è bellissimo. Andrea Zanzotto dice: «Io scrivo in questa lingua che passerà». Non c’è definizione migliore della poesia”.

Patrizia Cavalli, Mariangela Gualtieri, Patrizia Valduga, Roberta Dapunt, Silvia Bre, e lei… Fare poesia sembra diventato un territorio precipuamente femminile. Sarebbe interessante sapere quali poeti la esaltano, ha un autore feticcio?

“Anche questo è argomento molto complesso, non sono sicura che esista un territorio precipuamente femminile o precipuamente maschile. Ci sono donne di valore che scrivono poesia di valore ed è giusto che vengano riconosciute, ma perché il loro lavoro è valido non in quanto appartenenti a una categoria. Detto questo bisogna non smettere di lottare politicamente, socialmente perché non si torni indietro, perché non ci siano più discriminazioni, mai più. Voglio più donne al potere, una donna presidente della Repubblica, ma mentre lo dico mi rendo conto di nuovo quanto sia difficile riflettere su questo tema in poche righe.

“Ho molta fiducia nelle generazioni più giovani: mia figlia e le sue compagne sono consapevoli dei loro diritti e della necessità di non permettere più a nessuno di metterli in discussione. Il mio autore feticcio? Sembra scontato ma è Dante, mi esalta sempre, ogni volta che lo leggo per la sintesi fulminante tra pensiero e linguaggio. Pensiamo a una definizione come «l’aiuola che ci fa tanto feroci», a proposito della terra. Siamo noi, anche ora, siamo in un recinto ma lo vorremmo immenso ed eterno, l’avidità ci rende feroci. Poi ci sono poetesse che ho sempre amato: Saffo e le sue poetesse traduttrici: Jolanda Insana e in inglese Anne Carson, le due Emily: Bronte e Dickinson, Anna Achmatova, Marina Cvetaeva. Se penso a Dante penso a Osip Mandels’tam che ha scritto una meravigliosa Conversazione su Dante. Ci sono poi poeti amici, da oltre vent’anni il cui lavoro stimo moltissimo, come Jamie McKendrick . In ogni caso sono una lettrice onnivora con una certa predilezione per i libri scientifici, uno dei miei scrittori preferiti è Charles Darwin”.

Nella sua versificazione lei ha usato spesso il sardo. Che valore aggiunto ha apportato al suo linguaggio affrontare la lingua madre?

‘‘

Il mio sardo è di seconda generazione,

arriva da un incrocio di logudorese,

campidanese, gallurese. È affiorato dopo un lutto, quando mi sembrava di non trovare più le parole, come un bagaglio sonoro che non credevo di possedere. Il sardo con la sua asciuttezza, la prevalenza di consonanti, la sua sintesi tanto vicina al latino, mi ha fatto capire meglio, credo, il perché di alcune mie le scelte in italiano”.

La Sardegna, dunque. Lei ha un cognome estremamente significativo per la Storia della nostra terra: Angioy. In che modo le sue radici, il portato storico della sua famiglia hanno determinato la sua poetica?

‘‘

La mia famiglia, come tutte le famiglie,

è abbastanza complicata,

di Giovanni Maria Angioy ho sempre ammirato la scelta di schierarsi dalla parte dei deboli, degli oppressi, di combattere l’arroganza e mi commuove la sua fine: solo, povero, in esilio a Parigi. Io non sono in Sardegna spesso come vorrei, purtroppo, e ora sembra molto difficile raggiungerla. Questo mi rattrista, riconosco l’odore dal ponte del traghetto”.

Ma che cosa non le piace proprio della Sardegna? E a che cosa invece non rinuncerebbe mai?

“Non mi piace qualcosa che non mi piace anche in altri casi: l’antropocentrismo, il voler ricondurre tutto a se stessi, ai propri problemi, il non riuscire a liberarsi del passato. Penso a mia madre che adoravo ma che era rimasta ancorata a vecchie dinamiche familiari. Faccio questo esempio non a caso vista l’endogamia dell’isola. Forse bisognerebbe essere meno conservatori e più esploratori, anzi esploratrici.

“Questo si può fare anche senza andare lontano. Penso a Maria Lai – forse è lei il mio vero feticcio: esperienze internazionali, relazioni profonde con il territorio. Penso a Paolo Fresu, a Antonio Marras che con Maria Lai ha lavorato e, a proposito di Maria e a quel suo legarsi alla montagna con un nastro blu, lì c’era un grande insegnamento, una indicazione precisa. Non mi piace l’edilizia di certi paesi che potrebbero essere dei gioielli e andrebbero valorizzati. A cosa non rinuncerei? A lottare per tutto questo con i mezzi che ho”.

Ci regala qualche verso a conclusione di questa chiacchierata?

‘‘

L 'alba ci fa coraggio

questa luce che sale ci spinge ad ascoltare

dissolve ciò che deve. Dice: ora comincia a perlustrare

te per prima, scollando dalla mente la pelle del passato

prendendo senza più ira il tuo nulla tra le dita.

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