La Nuova Sardegna

L’Italia celebra l’ermetico Ungaretti

L’Italia celebra l’ermetico Ungaretti

Oggi ricorrono i cinquant’anni dalla scomparsa del poeta più amato dai giovani

01 giugno 2020
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ROMA. Era diventato un personaggio amato e popolare Giuseppe Ungaretti oramai anziano, grazie alle sue apparizioni televisive negli anni ’60, quando commentava qualcosa o recitava i versi dell’Odissea a introduzione dello sceneggiato, in quel modo un po’ gigionesco, declamatorio, ma sempre espressivo, intenso, e con quegli occhi scintillanti e sorridenti. A 50 anni dalla sua scomparsa a 82 anni la notte del primo giugno 1970, esattamente mezzo secolo fa, ci sarà qualcuno più anziano che ricorda bene quella figura con la barba bianca che sprizzava vitalità. Proprio questo amore per la vita, nella gioia dell’amore come nel dolore per sofferenze e morte, è alla base della sua opera e di quel suo «mi illumino / d’immenso», i due celebri versi di “Mattina” del 1917, scritti quindi nelle trincee del Carso, assieme alla sofferte poesie sulla Grande Guerra cui partecipò da soldato semplice, raccolte quell'anno in “Il porto sepolto” e poi, nel 1919, in “Allegria di naufragi”, volumi diventati classici.

Giuseppe Ungaretti, nato nel 1988 da genitori lucchesi a Alessandria d’Egitto, per cinquant'anni, a partire da quel titolo, “Il porto sepolto”, diventato mitico e considerato seme dell’ermetismo, è stato il più importante e significativo poeta italiano del Novecento con contatti internazionali, a cominciare dall'amico caro Guillaume Apollinaire sino a Jean Paulhan e Georges Braque. Li si formò, sino al suo viaggio a Parigi nel 1912, e, attraverso le riviste Mercure de France e La voce, entrò in contatto con le novità culturali europee, quindi, quando arriva in città Enrico Pea, con lui vive l'esperienza della Baracca Rossa, luogo d'incontro di socialisti e anarchici.

Era molto amato dagli appassionati di poesia per i suoi versi innovativi e profondi, con quell’assolutismo, intensità, profondità d’indagine dell'essere, tra tempo e destino, legata a una totale fede nella parola poetica, unica possibilità per salvarsi da «l'universale naufragio», a versi scarnificati che sono un po’ il dissolvimento della lingua tradizionale della poesia, ma sempre cosciente che «lo sperimentalismo non può essere fine a se stesso».

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