La Nuova Sardegna

Nicola Fano: «Il teatro più bello dell’isola è quello identitario»

di Paolo Coretti
Nicola Fano: «Il teatro più bello dell’isola è quello identitario»

Il celebre critico racconta la sua passione per il palcoscenico E svela ciò che invidia ai sardi: il senso di appartenenza

20 luglio 2020
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Storico del teatro, docente di Letteratura e Filosofia del Teatro a Torino, già direttore del celebre Ambra Jovinelli, autore di titoli come “Ionesco, Eugène”, “Tessere o non tessere. I comici e la censura fascista”, curatore per Einaudi dell’opera comica di Ettore Petrolini: quella di Nicola Fano con il palcoscenico si può definire ormai, per usare un eufemismo, una ben solida e fortunata frequentazione. Ma il romano, prima ancora che saggista e drammaturgo, è stato uno spettatore, inizialmente del tipo comune, e poi di professione.

Curioso il sottotitolo del suo recentissimo “Vite di ricambio”, ovvero “Manuale di autodifesa di uno spettatore”.

Da cosa si è dovuto e si deve difendere, come spettatore?

«Nel libro racconto un episodio: un mio vecchio direttore a L’Unità non voleva che mi occupassi di teatro, perché diceva che era una cosa per vecchi. Ecco: uno spettatore deve difendersi da chi considera il teatro superato, non al passo con i tempi. Il libro, e il sottotitolo, parlano dei motivi per cui nasce la passione per il teatro e del perché ha senso che nasca: ad esempio, perché il teatro ha raccontato gli ultimi quarant’anni di vita italiana, come cerco di dimostrare nelle mie pagine».

Il primo spettacolo visto?

«Tredicenne, con la scuola mi portarono in un piccolo teatro romano che oggi non c’è più. Ero un ragazzino privo di ogni attitudine letteraria, non leggevo nulla, ma vedere quello spettacolo mi colpì perché fu come se qualcuno mi raccontasse delle vite che non erano la mia, fu come avere la possibilità di conoscere altre persone senza, per me che sono sempre stato timido, essere necessariamente intraprendente: c’era solo da stare seduto in platea. Questa è stata la ragione per cui ho scelto di fare lo spettatore».

Quando ha sentito, o deciso, che sarebbe diventato uno spettatore di professione, e quindi un critico?

«Ero ormai uno spettatore assiduo quando un giorno, diciottenne, mi presentai alla redazione di un giornale e chiesi se c’era bisogno di qualcuno che scrivesse di teatro. Non avevo nessun titolo, ma quello era ancora un mondo in cui si avevano tante opportunità: per un colpo di fortuna, mi dissero di sì e così iniziai. La sola fortuna, però, non poteva bastare: cominciai a passare le notti sui libri di storia del teatro, intesa come storia delle rappresentazioni teatrali, e negli anni misi assieme il bagaglio di conoscenze che sentivo necessarie».

Scrive: «Il divo, detto senza malizia, è antitetico al buon teatro». Cosa intende?

«Il teatro è un equilibrio magico tra una serie di linguaggi: del corpo, della parola, della musica, dello spazio. Il divo tira tutto dalla sua parte, che è quella del corpo dell’attore, e mette in minoranza, o annulla, gli altri linguaggi. Ci sono divi che sono grandi attori, ma che dal punto di vista teatrale risultano “monchi».

Lei è molto legato alla Sardegna. Da cosa nasce questo legame?

«Dall’invidia. Mi spiego: io sono italiano, anzi, per dire meglio, sono romano, e i romani non hanno una identità forte condivisa come i sardi. I sardi hanno un carattere loro, una terra loro. Anche quando la calpestano, quando la rovinano, quello è pur sempre un atto che manifesta un’identità. Nel resto d’Italia questo non lo abbiamo, o lo abbiamo per altri canali, meno rilevanti. “Macbettu” di Alessandro Serra è uno spettacolo davvero molto bello anche perché vi si avverte fortissimo il senso di questa identità condivisa. Il successivo “Il giardino dei ciliegi” dello stesso regista è interessante, ma non altrettanto bello: perché manca dell’elemento identitario».

Ricorda uno spettacolo di particolare valore, tra quelli visti nell’isola?

«Sì, uno molto bello fu “La serra” di Harold Pinter, che vidi a Cagliari negli anni Ottanta, in cui il Teatro di Sardegna fu capace di coniugare l’esperienza culturale sarda con la sperimentazione e i paesaggi meno noti, meno battuti della grande scena teatrale internazionale».

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