La Nuova Sardegna

Realtà e sogno nel grande gioco del mondo

di Alberto Masala
Realtà e sogno nel grande gioco del mondo

Il lavoro costante dell’autrice oristanese: contrapporsi alla dicotomia tra razionale e irrazionale

27 luglio 2020
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Hai letto Pedro Páramo?

- No. Di chi è?

- Juan Rulfo, un grande… il padre del realismo magico messicano. Tutti quelli che sono venuti dopo gli devono qualcosa.

- Ho letto solo un po’ di Garcia Marquez.

- Rulfo è quello che ha cambiato la vita e la scrittura di Marquez. Ed è anche la prova che il Messico finisce a Oristano. Anzi, di più… finisce proprio a casa tua, in s’arruga ‘e Peppi Enna… Pedro Páramo sembra scritto da te.

Proprio così: Savina Dolores Massa appare come essere vivente a Oristano, in Sardegna, a quarant’anni e quattro mesi esatti dalla nascita del grande Juan Rulfo, mexicano de Jalisco, padre nobile della letteratura latino-americana, e - questo lo dichiaro con la consapevolezza di non sentirmi blasfemo - miracolosamente lo reincarna senza nemmeno averlo mai letto. (Quel dialogo avveniva per telefono un paio di mesi prima che sapessi del suo nuovo libro – ecco un altro segno del destino – che in parte è ambientato proprio in Messico.

Nei suoi libri, in questo e tutti i precedenti, Savina (la chiamo così senza complicazioni formali), con arte naturale e ricca di esplosive soluzioni drammaturgiche, riflette i giochi del destino nella parabola fondamentale dell’esistenza: vita, amore e morte.

Il suo stile, mai moralista o giudicante, è disposto a un simbolismo poetico ricco, abbacinante, magnetico e passionale, che, usando silenziosamente lo stesso potere illuminante dell’universo visionario, ogni volta riesce a sorprenderci con apparizioni inaspettate. È davvero magistrale la sua capacità di rendere permeabili i confini tra sogno e realtà, far risuonare le misteriose incoerenze del mondo dell’ombra in quello della luce, creare luminosi squarci emotivi in echi di pianti, odori, mormorii di amplessi, aliti di ricordi, rimbombi di ossessioni o di risate, battito di rancori, soffi di tenerezza, sussurri d’incubo o meravigliosi silenzi.

Lo spazio narrativo, superata l’incombenza di brevi e necessarie descrizioni ambientative, è ovunque amministrato dalle voci, vere protagoniste, intime o pronunciate, ma sempre con quei rimbalzi interiori che sbrogliano l’incarico di trasmettere la storia. Ognuna con le proprie differenti tonalità: felici, dolorose, sofferenti, allegre, folli, rivendicative, rimuginanti, sonore di sogni inappagati o mute per il peso d'iniquità subite, spesso preda di forze contrastanti, ma tutte necessarie a formare il tessuto.

Ogni sequenza temporale è trattata come un materiale da plasmare, e resta sempre in genesi come se fosse un frammento di memoria, innocentemente priva di continuità logica anche quando il destino si orienta verso le direzioni dell’ineluttabile.

Il lavoro costante della sua scrittura è un contrapporsi valoroso alla becera dicotomia tra realtà e sogno, per riformare continuamente quella logica primigenia che concede la stessa paritaria rilevanza vitale al razionale come all’irrazionale. Una posizione socialmente fragile ma necessaria e fondamentale per la specie umana, sebbene non riconosciuta dall’ottusità del sistema sociale. È però anche l’unica possibilità - agganciata all’Etica che governa il nostro rapporto col Pianeta - per riuscire a scovare, riconoscere, e far emergere bellezza da ogni cosa animata o inanimata.

E non solo in letteratura.

Savina è poeta dell’imperfezione umana, dell’alterità dolorosa degli irregolari, generosamente irregolare lei stessa, orgogliosa e brillantemente marginale, perciò capace di una tale arte narrativa da poter adottare le risoluzioni più improbabili e dunque ancora più cariche di verità.

La sua arte riesce ad elevare a luttuoso mito tragico, come a gioiosa leggenda satirica, perfino la superstizione popolare o la diceria pettegola di quartiere.

È il riscatto dell’inverosimile che affranca la narrazione letteraria dalla monotonia schiacciante delle regole realiste, dall’affettazione retorica delle pesantezze burocratiche con le sue noiose catalogazioni. Abissalmente distante anche da ammiccamenti e furbizie, arrampicamenti verso le superfici di visibilità mediatica, chiassose quanto vuote di contenuto, quella di Savina è pura scrittura, radicalmente non funzionale alla stanca tradizione borghese, innovatrice e unica, di statura universale perché fondativa di un linguaggio totale e senza precedenti nella letteratura sarda (e italiana) contemporanea.

La fluidità del suo canto non permette di staccarsi impunemente dalla narrazione; e se anche il lettore ci riuscisse, tutto gli rientrerebbe in alluvione invadendo il territorio del sogno. È il suo libero ingegno a deciderne le pause, ad amministrarne lo sguardo e l’immersione, è la sua ancora più libera lingua a decidere il percorso delle risonanze. In un gioco ininterrotto fra Memoria e Invenzione che intimidisce il Tempo e lo sospende in turbinio non misurabile di dissolvenze per emanciparlo dalla cronaca pedante e farlo scivolare nell’atemporalità del percorso emotivo, nell’eternità.

Come i grandi maestri del racconto: Kafka, Poe, Mahfuz, Rulfo… e le nostre nonne di Sardegna.

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