La Nuova Sardegna

«Il mio racconto comincia dalla fine per dare voce a ciò che poteva essere»

di Alessandro Marongiu
«Il mio racconto comincia dalla fine per dare voce a ciò che poteva essere»

Da venerdì in edicola con La Nuova Sardegna il romanzo “A tie solu bramo” La storia di Clelia, una piemontese che va a vivere in un paesino al sud dell’isola

26 novembre 2020
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Tra gli autori dell’ultima generazione, Giulio Neri, nell’arco di appena una manciata di titoli, ha dimostrato di avere già maturato una voce sua propria, assolutamente distinguibile: ciò che, in un panorama sempre più asservito al mercato e stilisticamente appiattito dai fuoriusciti dalle scuole di scrittura, appare quasi come un prodigio. La sua opera migliore, più intensa è senz’altro “A tie solu bramo”, che i lettori de La Nuova Sardegna non dovranno farsi sfuggire a partire da domani, quando sarà in edicola a 7,50 euro più il prezzo del quotidiano.

La storia di Clelia Boero, e dei coprotagonisti attraverso le cui vicende si delineano il profilo e la vita della donna, procede in senso inverso rispetto all’ordine cronologico: è per mezzo di questa semplice ma efficace intuizione narrativa che durante la lettura di “A tie solu bramo” non si ha solo un ruolo passivo, ma si è chiamati a partecipare alla costruzione, o meglio alla ricostruzione, degli avvenimenti. «Avevo da tempo l’idea di scrivere un romanzo che andasse a ritroso, in cui fosse cioè possibile leggere e, anzi, ricostruire l’intera vita del protagonista alla luce di un epilogo già noto. Mi sembrava un espediente funzionale alla mia linea narrativa più nostalgica. D’altra parte, sapere com’è andata a finire si porta dietro non solo ciò che è stato, ma anche ciò che avrebbe potuto essere. Penso a un carico di aspettative e di speranza. In tal senso, Clelia Boero è in primis un monumento di ciò che non ebbe cominciamento, una nostalgia al quadrato, insomma. Di base c’era questa atmosfera di illusioni e occasioni mancate, ma anche il cimento strutturale e cognitivo: romanzare partendo dalla fine, capovolgere il processo, la dinamica stessa causa-effetto. E farlo, perlopiù, attraverso le testimonianze dei comprimari, quindi intervenendo sull’assenza di Clelia dalla scena. Scrivere “A tie solu bramo” mi ha stimolato moltissimo».

Il suo è un romanzo di fratture: ad esempio, quella tra Elio, archetipo dell’italiano vecchio stampo per cui “lavoro” significa solo lavoro manuale che porta soldi, e sua figlia Clelia, archetipo di chi è cresciuto nel velleitario clima di libertà e liberazione degli anni Settanta e che vive nel mondo delle idee.

«Il rapporto padre-figlia è incentrato su contrasti netti, esasperati: c’è un conflitto generazionale in cui si riverbera anzitutto la differenza ideologica, con un trapasso da Vecchio a Nuovo che nella grammatica marxista degli Anni di Piombo sembrava intrinsecamente storico o “immanente”, una sorta di destino teorico che occorreva “solo” mettere in pratica. Certo, il prezzo da pagare era altissimo: ucciderne uno per educarne cento. Ma anche il patriarcato capitalista e il conservatorismo della famiglia tradizionale avevano ombre e scheletri nell’armadio. Clelia e suo padre Elio rappresentano il confliggere violentissimo di due sensibilità. Il conflitto culturale inquina i sentimenti, resta però un dato psicologico oggettivo: l’affetto non è mai puro, nemmeno nei legami di sangue e in contesti pacificati. E nei duri giudizi che padre e figlia si scambiano si trascende l’ideologia. C’è la persistenza di una madre morta, per esempio, una sovrapposizione di identità, perché agli occhi di Elio, vedovo, sua figlia è il proseguimento della moglie. E Clelia stessa percepisce l’anziano papà come un maschio limitato, geloso, che desidera orientarla e possederla, tout-court».

Un’altra frattura è quella segnata dalla Caduta del Muro e dalla fine dell’Urss, di cui però non tutti sembrano essersi accorti: Gabriele, socio di Clelia nel cineclub d’essai per cui scrive recensioni di film che nessuno è più interessato a leggere, è l’emblema dell’intellettuale incapace di accettare i cambiamenti attorno a lui.

«Sì, qui c’è una stagnazione tipica, anche di linguaggio. Una visione cristallizzata della partecipazione e dell’indottrinamento (proletario). Clelia è l’icona di un’epoca, e l’infatuazione di Gabriele è anche l’attaccamento a quegli ideali di lotta e a una visione tanto della Storia quanto della vita privata. Tutto crolla nel giro di un paio d’anni e non si può nemmeno essere troppo severi se qualcuno è rimasto fermo, aggrappato a un mondo in cui sembrava doversi incarnare la giustizia della Rivoluzione. In Gabriele, cinefilo socio di Clelia, c’è l’irrilevanza dell’intellettuale superato. C’è un codice di valori, di analisi, a cui non si vuole rinunciare».

Ampia e nota la retorica sui Sardi come portatori di virtù impareggiabili per ogni altro popolo del pianeta, prima fra tutte la (famigerata) ospitalità. I Sardi del romanzo sembrano ben più prossimi alla realtà: a farne le spese sono gli ospiti extracomunitari della locanda di Veniero e la stessa Clelia, straniera in quanto “continentale”.

«Il libro è stato fin da subito pensato per Il Maestrale, che, lo sappiamo, ha un occhio di riguardo per la Sardegna. E in “A tie solu bramo” sono sardi i luoghi chiave della narrazione. Ma non c’è una vocazione regionalistica da dépliant turistico, per intenderci. Quindi virtù, d’accordo, ma anche vizi. Accoglienza, ospitalità, ma anche xenofobia, e razzismo».

La torinese Clelia incide per l’uomo che ama una versione della celebre “No potho reposare”: perché?

«È un canto dalla potenza irripetibile. È l’amore stesso nella sua promessa disperata. E non è tanto la sostanza della promessa a commuovere, o il giuramento, o la granitica fedeltà alla retorica dell’a tie solu bramo, perché «ti assicuro che voglio solo te» può anche essere una bugia. Non è questo che conta. A contare è la mancanza che ritroviamo intatta ogni volta che ci allontaniamo dalla persona che amiamo. Allontanarsi è ineluttabile, talvolta siamo costretti all’allontanamento. Ma, colpevoli o innocenti, ogni volta ritroviamo il desiderio di prometterci a questa persona, nonostante la vita sia una puttana».

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