Gian Marco Tognazzi: «Io, Ugo e i miei fratelli un rapporto unico»
di Alessandro Pirina
L'attore ricorda il padre a 30 anni dalla morte
30 novembre 2020
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Trent’anni fa moriva Ugo Tognazzi. Un’emorragia cerebrale si portava via improvvisamente uno dei grandi protagonisti del cinema italiano, e non solo. Uno degli attori più bravi, geniali e poliedrici. Trent’anni dopo, i quattro figli - Ricky, Gian Marco, Thomas e Maria Sole - lo ricordano in “Ugo - La vita, gli amori, gli scherzi di un papà di salvataggio”, edito da Rai Libri. Un ritratto del grande attore scritto a otto mani da chi lo conosceva meglio di tutti.
Gian Marco, come nasce l’idea di questo libro?
«In occasione del trentennale della morte sono state fatte tante cose dedicate a Ugo, che andavano oltre il classico film ricordo. A quel punto anche noi come famiglia ci siamo detti: scriviamo un libro insieme. Ognuno di noi figli è entrato in profondità singolarmente senza essere condizionato dagli altri. Ognuno racconta il suo Ugo, il suo modo di vederlo. Vengono fuori quattro Ugo uguali ma diversi. Come i personaggi che interpretava o le ricette che inventava. Era un atto dovuto nei confronti di ciò che ci ha lasciato. Non solo la passione per il mestiere, ma anche il modo di essere. Ognuno di noi ha la sua vita: Thomas in Norvegia, Ricky con Simona (Izzo, ndr), Maria Sole a Roma, io a Velletri con la mia famiglia sarda (la moglie di Gian Marco è la sassarese Valeria Pintore, ndr). Viviamo lontani, ma, grazie anche a mia madre Franca, intorno a Ugo siamo sempre molto uniti».
Da libro si evince che siete stati dei figli molto diversi.
«Siamo profondamente diversi ma profondamente simili, perché in qualche modo la genetica ughesca ce l’abbiamo tutti. Ugo aveva mille sfaccettature. In Maria Sole e Ricky rivedo l’Ugo regista, in Thomas l’organizzatore, quello più nordico, molto più nordico di Ugo. In me convivono l’aspetto provocatorio da un lato e anticonformista dall’altro. In tutti noi c’è un minimo comune denominatore genetico».
Che padre era Ugo Tognazzi?
«Un padre estremamente assente ma molto presente nella sua assenza. La stagione con cui si rapportava meno bene era l’adolescenza, quando non sei più bambino ma nemmeno adulto. Una età difficile per tutti. Con i figli che arrivavano in quella zona non riusciva più a divertirsi e a giocare».
Nel libro racconta di un rapporto conflittuale tra voi.
«Io gli davo un po’ di preoccupazioni, perché sono quello che ha protratto l’adolescenza più a lungo».
Non era contento che avesse accettato di fare Sanremo.
«A lui dava fastidio la superficialità con cui stavo andando a presentare il festival. Capiva che non sapevo dove stavo andando artisticamente. Ugo pensava: ora lo mettono sui giornali e diventa un imbecille».
La riconciliazione avviene al suo debutto teatrale. Come racconta nel libro, quel «bravi» ha in qualche modo segnato una svolta nella sua carriera.
«C’è una foto di 15 anni prima di Ugo allo stadio che esulta per un gol della Cremonese: pugnetti alzati e sorriso di grande soddisfazione. Il momento di quell’urlo alla prima di “Crack” è fotografato in quella vecchia immagine. Per la prima volta i nostri ruoli erano rovesciati: io in scena, lui tra il pubblico. Era un piccolo teatro, 50 persone in 90 metri quadri: quell’urlo risuonò come un tuono. «Bravi!». Fu come una reazione istintiva a un gol. Non lo avrebbe mai fatto davanti ad altri se non lo avesse sentito veramente. Da quel momento mi sono rimesso in gioco seguendo le orme di Ricky da assistente alla regia, studiando con Beatrice Bracco. Quel lasciapassare di Ugo ha segnato il cambiamento artistico della mia vita».
Negli ultimi anni suo padre si era sentito messo da parte.
«Lui fu molto deluso da come venne vista la figura dell’attore dagli anni Ottanta in poi. Chi come lui proveniva dal trentennio del grande cinema vedeva affermarsi attori non necessariamente legati a un talento, a una professionalità. La commercializzazione prevaleva sui contenuti. E questa cosa lo feriva. Aveva paura di invecchiare, di avere vissuto una stagione che con l’evoluzione dei tempi non sarebbe stata neanche ricordata. Ma su questo si sbagliava. Lui era uno che vedeva vent’anni avanti. Al cinema come in cucina. O nella famiglia allargata».
Perché in Italia il figlio d’arte viene visto con fastidio?
«Il nostro Paese è fondato sui mestieri tramandati di padre in figlio, dal maniscalco al salumiere. Ma nel mondo dello spettacolo è stato sempre visto come un aspetto negativo. I figli d’arte respirano in casa il mestiere dell’attore come qualsiasi altro mestiere tecnico. È una tradizione di famiglia di cui puoi innamorarti o che puoi rifiutare. Sono più i figli d’arte che fanno altro. Per trent’anni però siamo stati bersagliati. Ma posso garantire che per quanto riguarda noi quattro non c’è alcuna competizione a diventare più famosi, più bravi di nostro padre. Sono gli altri a fare i paragoni. Per anni mi chiedevano: “quanto ti pesa chiamarti Tognazzi?”. Una volta risposi: “pesa solo a voi. per noi è solo orgoglio”».
“Una questione d’onore” di Zampa e le vacanze a Porto Rotondo: qual era il legame di Ugo Tognazzi con la Sardegna?
«Ugo amava la bellezza e dunque non poteva non amare la Sardegna. La casa a Porto Rotondo fu una opportunità, lui era molto amico dello scultore Mario Ceroli. E poi tutti i colleghi andavano lì. Non era ancora la Costa ipervip degli anni Ottanta e Novanta. Ai tempi c’era una vita a portata d’uomo. Potevi uscire con lo yacht ma anche con la barchetta, come quelle di Salce e Ferreri. Ugo poi amava la cucina tradizionale sarda. Se c’è una cosa, forse, che non gli è riuscita fino in fondo è non avere saputo dare una caratterizzazione al personaggio di “Una questione d’onore”. Non è stata tra le sue prove migliori».
I tre film a cui è più legato?
«Difficile rimanere sotto i 25, ma ci provo. Dico “Il federale”, perché è il film che cambia la percezione di Ugo da attore da commedia ad attore di spessore. Poi, “Amici miei” e “La grande abbuffata” che rappresentano la consolidazione. E “La tragedia di un uomo ridicolo”, con cui conquistò la Palma d’oro a Cannes. Fu la sua più grande soddisfazione personale da cui si sarebbe atteso opportunità in età matura, invece non arrivarono e lui iniziò a capire che nel cinema stava cambiando qualcosa. Un paradosso. La stessa cosa accadde a Gassman e Sordi».
Gian Marco, come nasce l’idea di questo libro?
«In occasione del trentennale della morte sono state fatte tante cose dedicate a Ugo, che andavano oltre il classico film ricordo. A quel punto anche noi come famiglia ci siamo detti: scriviamo un libro insieme. Ognuno di noi figli è entrato in profondità singolarmente senza essere condizionato dagli altri. Ognuno racconta il suo Ugo, il suo modo di vederlo. Vengono fuori quattro Ugo uguali ma diversi. Come i personaggi che interpretava o le ricette che inventava. Era un atto dovuto nei confronti di ciò che ci ha lasciato. Non solo la passione per il mestiere, ma anche il modo di essere. Ognuno di noi ha la sua vita: Thomas in Norvegia, Ricky con Simona (Izzo, ndr), Maria Sole a Roma, io a Velletri con la mia famiglia sarda (la moglie di Gian Marco è la sassarese Valeria Pintore, ndr). Viviamo lontani, ma, grazie anche a mia madre Franca, intorno a Ugo siamo sempre molto uniti».
Da libro si evince che siete stati dei figli molto diversi.
«Siamo profondamente diversi ma profondamente simili, perché in qualche modo la genetica ughesca ce l’abbiamo tutti. Ugo aveva mille sfaccettature. In Maria Sole e Ricky rivedo l’Ugo regista, in Thomas l’organizzatore, quello più nordico, molto più nordico di Ugo. In me convivono l’aspetto provocatorio da un lato e anticonformista dall’altro. In tutti noi c’è un minimo comune denominatore genetico».
Che padre era Ugo Tognazzi?
«Un padre estremamente assente ma molto presente nella sua assenza. La stagione con cui si rapportava meno bene era l’adolescenza, quando non sei più bambino ma nemmeno adulto. Una età difficile per tutti. Con i figli che arrivavano in quella zona non riusciva più a divertirsi e a giocare».
Nel libro racconta di un rapporto conflittuale tra voi.
«Io gli davo un po’ di preoccupazioni, perché sono quello che ha protratto l’adolescenza più a lungo».
Non era contento che avesse accettato di fare Sanremo.
«A lui dava fastidio la superficialità con cui stavo andando a presentare il festival. Capiva che non sapevo dove stavo andando artisticamente. Ugo pensava: ora lo mettono sui giornali e diventa un imbecille».
La riconciliazione avviene al suo debutto teatrale. Come racconta nel libro, quel «bravi» ha in qualche modo segnato una svolta nella sua carriera.
«C’è una foto di 15 anni prima di Ugo allo stadio che esulta per un gol della Cremonese: pugnetti alzati e sorriso di grande soddisfazione. Il momento di quell’urlo alla prima di “Crack” è fotografato in quella vecchia immagine. Per la prima volta i nostri ruoli erano rovesciati: io in scena, lui tra il pubblico. Era un piccolo teatro, 50 persone in 90 metri quadri: quell’urlo risuonò come un tuono. «Bravi!». Fu come una reazione istintiva a un gol. Non lo avrebbe mai fatto davanti ad altri se non lo avesse sentito veramente. Da quel momento mi sono rimesso in gioco seguendo le orme di Ricky da assistente alla regia, studiando con Beatrice Bracco. Quel lasciapassare di Ugo ha segnato il cambiamento artistico della mia vita».
Negli ultimi anni suo padre si era sentito messo da parte.
«Lui fu molto deluso da come venne vista la figura dell’attore dagli anni Ottanta in poi. Chi come lui proveniva dal trentennio del grande cinema vedeva affermarsi attori non necessariamente legati a un talento, a una professionalità. La commercializzazione prevaleva sui contenuti. E questa cosa lo feriva. Aveva paura di invecchiare, di avere vissuto una stagione che con l’evoluzione dei tempi non sarebbe stata neanche ricordata. Ma su questo si sbagliava. Lui era uno che vedeva vent’anni avanti. Al cinema come in cucina. O nella famiglia allargata».
Perché in Italia il figlio d’arte viene visto con fastidio?
«Il nostro Paese è fondato sui mestieri tramandati di padre in figlio, dal maniscalco al salumiere. Ma nel mondo dello spettacolo è stato sempre visto come un aspetto negativo. I figli d’arte respirano in casa il mestiere dell’attore come qualsiasi altro mestiere tecnico. È una tradizione di famiglia di cui puoi innamorarti o che puoi rifiutare. Sono più i figli d’arte che fanno altro. Per trent’anni però siamo stati bersagliati. Ma posso garantire che per quanto riguarda noi quattro non c’è alcuna competizione a diventare più famosi, più bravi di nostro padre. Sono gli altri a fare i paragoni. Per anni mi chiedevano: “quanto ti pesa chiamarti Tognazzi?”. Una volta risposi: “pesa solo a voi. per noi è solo orgoglio”».
“Una questione d’onore” di Zampa e le vacanze a Porto Rotondo: qual era il legame di Ugo Tognazzi con la Sardegna?
«Ugo amava la bellezza e dunque non poteva non amare la Sardegna. La casa a Porto Rotondo fu una opportunità, lui era molto amico dello scultore Mario Ceroli. E poi tutti i colleghi andavano lì. Non era ancora la Costa ipervip degli anni Ottanta e Novanta. Ai tempi c’era una vita a portata d’uomo. Potevi uscire con lo yacht ma anche con la barchetta, come quelle di Salce e Ferreri. Ugo poi amava la cucina tradizionale sarda. Se c’è una cosa, forse, che non gli è riuscita fino in fondo è non avere saputo dare una caratterizzazione al personaggio di “Una questione d’onore”. Non è stata tra le sue prove migliori».
I tre film a cui è più legato?
«Difficile rimanere sotto i 25, ma ci provo. Dico “Il federale”, perché è il film che cambia la percezione di Ugo da attore da commedia ad attore di spessore. Poi, “Amici miei” e “La grande abbuffata” che rappresentano la consolidazione. E “La tragedia di un uomo ridicolo”, con cui conquistò la Palma d’oro a Cannes. Fu la sua più grande soddisfazione personale da cui si sarebbe atteso opportunità in età matura, invece non arrivarono e lui iniziò a capire che nel cinema stava cambiando qualcosa. Un paradosso. La stessa cosa accadde a Gassman e Sordi».