La Nuova Sardegna

Ester e Raffaele, il sogno di un mondo più giusto

di MILENA AGUS
Ester e Raffaele, il sogno di un mondo più giusto

Da venerdì in edicola con La Nuova “Terre promesse” di Milena Agus Lasciare un’isola senza più futuro per inseguire la felicità sul Continente 

01 dicembre 2020
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Pubblichiamo il primo capitolo del romanzo di Milena Agus “Terre promesse”, da venerdì in edicola come ultima uscita della collana Scrittori di Sardegna, a 7,50 euro oltre il prezzo del giornale.

* * *di MILENA AGUS

Ester arrivò senza fiato e insieme al treno. Ma non si avvicinò al gruppo, perché al posto di Raffaele, il suo fidanzato, dal vagone scese un uomo gonfio, quasi senza capelli e vestito di una ridicola tuta verde.

Raffaele era povero. Suo padre aveva fatto il manovale e il figlio, da bambino, andava a lavorare con lui, un cappelluccio di lana in testa d’inverno e un fazzoletto bagnato tenuto con quattro nodi d’estate. Era andato in guerra volontario, perché era fascista, dicevano in paese. In realtà, aveva semplicemente letto e riletto i romanzi di Salgari, Melville, London, Conrad e si era arruolato in Marina per vedere il mare. O forse, perché non voleva fare per sempre il manovale, o il pastore, o il contadino.

Alla madre aveva detto che veniva al paese soltanto per un saluto, poi si sarebbe rimesso addosso la sua divisa della Marina Militare e se ne sarebbe andato di nuovo.

La madre era rimasta vedova da giovane. Nella loro strada, era l’unica che sapesse leggere e scrivere, e per una lettera la pagavano con un uovo. Lei lo dava al figlio minore, debole di salute, e per Raffaele, primogenito e forte, non c’era quasi mai niente da mangiare. Anche per questo era andato in guerra volontario, e non perché era fascista.

Nella sfortuna universale della guerra gli era toccato il peggio. Era sull’incrociatore Trieste, nell’aprile del 1943, nella rada di Mezzo Schifo, a Palau, quando il Trieste fu affondato dalla III squadriglia dei B17 del novantottesimo gruppo, e si era salvato galleggiando ore e ore attaccato a un pezzo di legno. Dopo l’8 settembre del 1943, i tedeschi l’avevano fatto prigioniero al largo di Marsiglia mentre si trovava sul Jean de Vienne, che era stato ceduto dalla Repubblica di Vichy alla Regia Marina nel 1942. Gli avevano chiesto, come a tutti i prigionieri italiani, di combattere dalla parte di Hitler, altrimenti l’alternativa era il lager. Raffaele non aveva avuto dubbi e aveva scelto il lager. Fu imprigionato nel campo di Hinzert e poi liberato dagli americani.

I compaesani pensavano quindi di rivederlo depresso, pelle e ossa, e invece era grasso e parlava con entusiasmo. Spiegò subito che gli americani, appena entrati nel campo, si erano spaventati per le condizioni dei prigionieri e li avevano rimpinzati di cibo in scatola, cioccolato, sigarette, ogni grazia di Dio. Cosí, adesso era ingrassato e fumava.

Posò per terra il piccolo bagaglio e si mise subito a rovistarci dentro. Tirò fuori dei pacchetti di sigarette e delle tavolette di cioccolato e li porse ai compaesani venuti ad accoglierlo, dicendo con orgoglio che erano un regalo del suo grande amico di New York, un trombettista nero che sarebbe di sicuro diventato famoso. Quel nero si era portato dietro una tromba fino in Europa e lui non avrebbe mai dimenticato l’effetto che faceva quella musica nella desolazione del lager. Anche i tedeschi, a volte, mettevano sui loro grammofoni della musica che arrivava fino ai prigionieri, ma quella del suo amico era un’altra cosa. Era lí, in mezzo a loro, era jazz.

Quel trombettista aveva la maledetta abitudine di dire: “Ehi, white man, come here!” quando chiamava uno dei prigionieri. E visto che i prigionieri di quel campo erano tutti bianchi, era chiaro che li stava sfottendo. Un giorno Raffaele si era stufato, aveva reagito e, chiedendo a un americano che parlava italiano di tradurre, gli aveva risposto: “Senti, qui abbiamo tutti un nome e di bianchi, neri, ebrei, slavi, zingari e giapponesi ce ne vogliamo dimenticare”.

Da quel momento, il nero di New York aveva smesso di sfotterli. A Raffaele, come poteva, nella sua lingua raccontava tante cose sul jazz. Ma non gli aveva mai detto il suo nome.

Con l’aria di non volerlo deludere sottovalutando quello di cui il ragazzo andava tanto fiero, cioccolato, sigarette, amici neri americani, i paesani lo ascoltavano e tenevano i pacchetti fra le mani.

Ester, che da lontano guardava la scena, a un certo punto si nascose. Il suo amore era diventato goffo, gonfio, quasi pelato, e averlo atteso tanto a lungo, adesso, le sembrava una pazzia.

Raffaele, dopo aver distribuito la cioccolata e le sigarette, lasciò il gruppo e si avviò da solo verso l’uscita della stazione. I paesani restarono a guardarlo mentre si allontanava. Dei suoi racconti e del jazz non se ne facevano niente.

Anche Ester, attenta a non farsi vedere, se ne tornò a casa sua.

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