La Nuova Sardegna

Orme di Cosima. Dentro lo sguardo di un Nobel

ROSSANA DEDOLA
Orme di Cosima. Dentro lo sguardo di un Nobel

L’itinerario ripercorso da Rossana Dedola  nei luoghi della vita e delle opere della scrittrice 

05 dicembre 2020
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Pubblichiamo una parte del primo capitolo del libro di Rossana Dedola “In Sardegna con Grazia Deledda”, Giulio Perrone editore.



di ROSSANA DEDOLA

È una giornata fredda di dicembre e dall’alto del monte Ortobene scorgo in lontananza una striscia appena più scura dell’azzurro del cielo e ho l’impressione che il mare si elevi al di sopra della montagna. Proprio da questo punto Grazia Deledda aveva visto per la prima volta il mare. Come racconta in Cosima, quel giorno insieme al fratello Andrea era andata a cavallo fino all’ovile di una delle tancas del padre. Quel giorno Cosima imparò più cose che in dieci lezioni del professore di belle lettere. Imparò a distinguere la foglia dentellata della quercia da quella lanceolata del leccio, e il fiore aromatico del tasso barbasso da quello del vilucchio. E da un castello di macigni sopra i quali volteggiavano i falchi che parevano attirati dal sole come le farfalle notturne dalle lampade, vide una grande spada luccicante messa ai piedi di una scogliera come in segno che l’isola era stata tagliata dal continente e tale doveva restare per l’eternità. Era il mare che Cosima vedeva per la prima volta.

Da questo monte che nella sua sommità non supera i mille metri, fatto di granito di tutte le forme, enormi pezzi di costruzioni con cui potrebbero giocare dei ciclopi bambini, coperto di lecci, ginepri rossi, corbezzoli, querce da sughero, olivastri, lentischi, ma anche convolvoli e tassi barbassi, riconosco alcuni luoghi e paesi dei suoi romanzi. Voltandomi a destra individuo Orgosolo col suo Supramonte, più in là il Gennargentu, poi la piramide del monte Gonare con gli altopiani di Orune e di Bitti, qui di fianco vedo Oliena col magnifico monte Corrasi che ho ammirato in altre occasioni spennellato di sfumature d’argento, mentre oggi ha le pendici coperte di un verde intenso.

Davanti a me c’è Dorgali sormontata dalla montagna che la protegge dal vento di mare, il monte Bardia, e poi il monte Tuttavista che sovrasta Galtellì, il monte Albo e le strisce bianche delle spiagge del golfo di Orosei. Anche Grazia Deledda aveva puntato gli occhi su questo orizzonte e mi chiedo se pensasse di essere in una terra sperduta in mezzo al mare, oppure se era consapevole di essere su un’isola al centro del Mediterraneo. Due archeologi americani, Stephen L. Dyson e Robert J. Rowland Jr., si sono interrogati sul rapporto dei sardi con il mare. Nel loro libro sottolineano che nell’isola il punto più lontano dal mare dista sessantaquattro chilometri, quindi, argomentano i due studiosi, la costa è sempre stata raggiungibile dall’entroterra in soli due giorni di cammino. Proprio questa osservazione li portava a mettere in discussione uno dei luoghi comuni sugli abitanti della Sardegna, ovvero l’odio, l’avversione dei sardi per il mare, e dunque il fatto che non lo conoscessero. Lo smentivano del resto le numerose lampade votive d’epoca nuragica a forma di navicella rinvenute in diverse zone di interesse archeologico, e anche gli enormi mucchi di frutti di mare e di mitili di cui evidentemente si cibavano con golosità, ritrovati in siti anche più antichi.

L’archeologo Giovanni Ugas ha dedicato un ponderoso lavoro agli Shardana e alla Sardegna, ipotizzando che i Sardi nuragici fossero gli Shardana, gli antichi popoli del mare, un tempo mercenari del faraone Ramsete II, in seguito suoi nemici. A essi si doveva la distruzione dell’Impero Ittita e dell’Egitto dei faraoni. Il giornalista Sergio Frau aveva fatto riferimento al racconto di Platone su Atlantide – scomparsa in un solo giorno a causa di uno schiaffo di Poseidone – per ipotizzare che uno tsunami di spaventose dimensioni avesse spazzato via l’antichissima civiltà della Sardegna, la prima del Mediterraneo, il primo centro della terra. Al mito di Atlantide accenna anche Grazia Deledda. “Intendo ricordare la Sardegna della mia fanciullezza, paese ancora per me di mito e di leggenda. Una di queste leggende afferma che l’Isola è un residuo scampato a un cataclisma che in tempi remotissimi fece sommergere nell’oceano la grande Atlantide: continente già di avanzata civiltà e di costumi nobilissimi. E, certo, nei costumi e negli usi dei centri anche più solitari della Sardegna, nelle loro feste, nei loro riti, sopravvivono tradizioni originali che risalgono ad epoche anteriori alla civiltà orientale e a quella portata nell’isola dalle prime dominazioni straniere. Nulla di preciso si sa ancora, per esempio, dei nuraghes, i misteriosi monumenti che solo in Sardegna sopravvivono intatti e potenti”.

Dopo un passato grandioso che risale al periodo prenuragico e nuragico,(...) una fitta nebbia sembrava essere calata sull’isola fino quasi a cancellarla dall’orizzonte, tanto che all’inizio del Novecento era ancora considerata da molti semisconosciuta. L’idea di quel passato straordinario spazzato via da un colpo di spugna mi sgomenta. Possibile che dopo la preistoria la Sardegna sia sprofondata nel nulla? Di quel passato grandioso non c’è traccia nei libri di storia italiani.

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