La Nuova Sardegna

Addio al grande poeta del cinema verità

di FABIO CANESSA
Addio al grande poeta del cinema verità

Il regista si è spento a soli 59 anni ucciso dal Coronavirus

12 dicembre 2020
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Se molti si sono avvicinati al cinema coreano soltanto di recente grazie a “Parasite” di Bong Joon-ho, un successo mondiale con la vittoria agli Oscar, c’è chi ha avuto la fortuna di scoprirlo molto tempo prima grazie ai suoi film. Kim Ki-duk è stato uno dei registi asiatici più amati in Occidente, grazie soprattutto ai suoi migliori film realizzati nei primi anni Duemila.

Elogiati della critica, ma capaci di andare anche oltre il pubblico festivaliero e arrivare al cuore di tutti gli spettatori per la sensibilità del suo sguardo così unico. Fatto di poesia del silenzio e crudezza, dolcezza e violenza. Un uomo complicato, con problemi di depressione e anche giudiziari (accusato di violenza da una sua attrice) e autore di culto che ha saputo regalare a chi ama il cinema scene indimenticabili. Sempre coerente al suo modo di vedere e fare cinema, con spirito indipendente, anche quando nella seconda parte della sua carriera una certa confusione creativa non gli ha permesso di esprimersi allo stesso livello dei suoi anni migliori. Se n’è andato non ancora sessantenne (avrebbe compiuto gli anni tra qualche giorno) proprio per il virus che ha segnato questo anno maledetto, per complicanze dovute al Covid. In Lettonia dove pare volesse comprare una casa, lontano dalla sua Corea del Sud che non lo ha mai amato troppo.

Si era trasferito una prima volta in Europa nel 1990, a Parigi, coltivando la sua passione per la pittura, prima di esordire alla regia nel 1996 con “Crocodile”. L’affermazione a livello internazionale arriva con “L’isola” presentato nel Duemila alla Mostra del cinema di Venezia, dove quattro anni dopo vince il Leone d’argento per il premio speciale della giuria con “Ferro 3 – La casa vuota”. Senza dialoghi, urla di emozioni con le sue immagini, raccontando la storia d’amore tra un vagabondo e una giovane donna vittima di abusi da parte del marito. Uno dei migliori lungometraggi di Kim Ki-duk, probabilmente il più noto insieme a “Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera” presentato a Locarno l’anno prima. La storia di un monaco buddhista raccontata in cinque parti, le stagioni come il ciclo della vita. Un film dal grande fascino visivo.

È un periodo d’oro per il regista coreano che continua ad essere selezionato nei principali festival internazionali portando a casa spesso dei premi. Sempre nel 2004 vince l’Orso d’argento per la regia alla Berlinale con “La samaritana”, ritratto di due adolescenti che decidono di prostituirsi. Dopo “L’arco” nel 2005 con i successivi film sembra però rompersi qualcosa nella freschezza autoriale che lo ha caratterizzato sino a quel momento. Finito il deludente “Dream”, nel 2008 affronta una profonda crisi esistenziale e torna dietro la macchina soltanto tre anni dopo con un documentario autobiografico sui suoi tormenti intitolato “Arirang” che vince la sezione Un Certain Regard al festival di Cannes. L’anno seguente torna a Venezia e vince il Leone d’oro per il miglior film con “Pietà”. Pur non arrivando al livello dei suoi lavori più belli, un buon lungometraggio che ha soddisfatto i fan.

Con i successivi film Kim Ki-duk non troverà invece la via per esprimersi al meglio. Ma quello che ci ha regalato è già abbastanza per ricordarlo come uno dei grandi della settima arte.

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