La Nuova Sardegna

Roma l’eterna tra bellezza e violenza

Roma l’eterna tra bellezza e violenza

Nel romanzo “La città dei vivi” Nicola Lagioia racconta la capitale attraverso l’atroce assassinio di Luca Varani

13 dicembre 2020
5 MINUTI DI LETTURA





Perché l’Inferno e il Paradiso nella Città Eterna? Perché Manuel Foffo e Marco Prato - giovani più che bene, poco in sintonia con i genitori - si avventano come belve su Luca Varani e lo ammazzano - orrore su orrore - in “un omicidio rituale”? Perché la scena del crimine è una “Roma caotica, sporca, che ha perso la bussola” e si ritrova “con due Papi?”. Il nuovo libro di Nicola Lagioia, “La città dei vivi” (Einaudi, pagine 461, euro 22), fa pensare, pone domande che scuotono. In vetta alle classifiche, sta mobilitando traduttori di mezzo mondo. I motivi sono tanti: perché l’autore va ai fondamentali della vita come in altri romanzi, come in “Ferocia” del 2014 col quale vince i premi Strega e Mondello, come in “Riportando tutto a casa” del 2009 col quale triplica gli allori aggiudicandosi il Viareggio, il Vittorini e il Volponi. Dice che “la letteratura sta lì dove ci sono i problemi. E su questi dobbiamo indagare, interrogarci”. Si fa guidare dall’incipit di Lev Tolstoj in Anna Karenina: «Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo». Ed eccoci - più fra drammi che tra gioie - in un appartamento del rione Collatino dove la tragedia si svolge. Tragedia vera, come la cronaca nera insegna. Dal 2017 direttore del Salone del Libro di Torino, voce-mito mattutina di Radio3 a “Pagina3”, Nicola Lagioia, 47 anni, di Bari, risponde al telefono da un treno tra Alpi e Appennini.

Il linguaggio appare sempre più curato, da ogni pagina emerge una oraziana “custodia linguae”, parole usate in forma religiosa. Perché?

«Accetto l’aggettivo religiosa. Le parole hanno il loro senso. In alcuni brani della Bibbia, per alcune parole tradotte male, certe storie sono state tramandate in modo diverso dall’originale. La letteratura ha canoni diversi rispetto al discorso pubblico. Questo - pensiamo a quello politico - è spesso retorico, pubblicitario, tende alla persuasione. Se io ti dico vota per me, scegli il mio prodotto, prendi me e snobba l’altro, sono pronto a proclamare false certezze e verità, sono un venditore. La letteratura rinuncia a questa retorica. I libri che amiamo non danno risposte definitive, provano solo a sollevare tutte le domande possibili. Succede anche nei testi religiosi: sono molto più ambigui ed elusivi di quanto potrebbe sembrare».

Perché tanta attenzione alla lingua? La sociologia del linguaggio si fa letteratura.

«Pochi anni fa, al Salone di Torino, parlando di questo problema, un uomo di fede mi disse: se ci pensi, come in un libro di William Faulkner (Nobel della letteratura nel 1949, ndr), i Vangeli sono quattro. Però molte cose cambiano da un testo all’altro. Perché? Proprio per l’uso diverso delle parole. Per stare alla cronaca: non sono state cambiate poche parole nel Padre Nostro? Ecco perché l’uso sapiente della parola fa sì che il lettore sia una parte in causa, è il lettore che legge il libro così come il libro sceglie il lettore. Quando rileggiamo un romanzo che abbiamo amato, proviamo sensazioni nuove, scattano emozioni prima non provate. È l’epifania della letteratura. Per ottenere tale risultato, come è avvenuto in questo nuovo libro, il lavoro sulla lingua è fondamentale, diventa comunicazione profonda. Per questo provo a lavorare come so e come posso, col mio talento».

I protagonisti del libro sono “immaturi” per la psicologa, c’è “il trionfo dell’impotenza”, uno “stato di prostrazione”.

«Quei ragazzi che hanno ucciso, da una parte non avevano un movente, dall’altra erano considerati normali fino al giorno prima del delitto. Ancora: pur riconoscendo l’atrocità di ciò che avevano fatto, faticavano quasi a ricondurla a un atto di libero arbitrio, sembrava che pure loro chiedessero agli accusatori come mai era possibile che ciò fosse avvenuto. Le tragedie sembrano sempre perfette. Siamo noi inadeguati ad accoglierle, la tragedia porta con sé il concetto di reversibilità che noi odiamo, detestiamo, rimuoviamo di continuo. Ma la psicoanalisi basilare insegna che se tu rimuovi qualcosa di importante, quel rovello continuerà a roderti. Rimettere al centro della scena un sentimento tragico dell’esistenza, più che farci paura restituisce dignità, tridimensionalità e ricchezza alla vita. Così la letteratura ci ricongiunge a qualcosa di profondamente umano, è ciò che il discorso pubblico tiene fuori dalla scena. Il delitto di Roma è da collocare quasi in una forma ancestrale perché si scatena una violenza lontana dalle nostre abitudini. Ma ciò è avvenuto».

Perché il titolo “La città dei vivi” in scenari tutt’altro che vitali?

«Roma si presenta con i turisti attorno al Colosseo, attorno al Tempio di Venere. Appare una città solare, il cielo sugli archi di travertino. Poi c’è un elemento minaccioso, quasi che la città dei vivi dialoghi con la città dei morti. È una caratteristica di Roma: quasi che la città notturna e la città alla luce del sole intrattengano da sempre rapporti molto profondi, dai tempi dell’antica Roma a Suburra. Roma non capisce come alcune tragedie si trasformino in farsa e viceversa. La città eterna è quella dove tutto è transitorio, dove passa tutto, transit anche la gloria, c’è un grande cinismo che al tempo stesso sembra tramutarsi in eterna saggezza. Un esempio davvero solare: a Roma arrivano due emiliani, Federico Fellini ci vede “La Dolce vita”, Pier Paolo Pasolini ci scrive Accattone, c’è Via Veneto e l’Idroscalo. Ecco, anche esteticamente, due città diverse. È la Roma che contiene molte città del mondo».

C’è bisogno del male per raccontare i tormenti della vita, i travagli interiori dell’uomo? Per capire la complessità della vita, delle vite?

«Servono le zone di luce e le zone d’ombra. Ma se dal discorso letterario togli del tutto il male è difficile muovere anche i primi passi. Se non ci fosse stato un don Rodrigo che si opponeva alle nozze tra Renzo e Lucia non ci sarebbero stati “I promessi sposi”. Se i Capuleti e i Montecchi non avessero brigato, non avremno avuto Romeo e Giulietta. Se a Macbeth non fosse venuta l’idea di diventare re a spese del legittimo sovrano di Scozia, non avremmo avuto il capolavoro di Shakespeare. Voglio dire che la letteratura è dove ci sono i problemi, non può sfuggirle. Lì dobbiamo indagare per capire il mondo, anche per arginare il male».

Riemerge un altro metodo che va apprezzato: la sua scrittura lenta. Meditata appunto.

«Tra il mio primo e secondo libro sono passati tre anni, tra il secondo e il terzo cinque, tra il quarto e il quinto addirittura sei. Spero di non continuare così ma di certo il prossimo libro non uscirà fra un anno».

Rivedremo Lagioia, nella prossima primavera, tra gli stand del Lingotto, fra libri e tanta gente?

«Lo sapessi! Pensare ai 150 mila visitatori dell’edizione 2018 è impossibile. Sosterremo comunque la filiera del libro e non smetteremo di promuovere la lettura e la letteratura. Certo, mi piacerebbe riabbracciare la gente».

In Primo Piano
L’intervista in tv

Alessandra Todde: «L’Italia non è il paese della felicità che racconta la premier Giorgia Meloni»

Le nostre iniziative