La Nuova Sardegna

Balentìa del male, la Sardegna di Gino Camboni

di Antonietta Mazzette
Balentìa del male, la Sardegna di Gino Camboni

“Le voci di Sant’Andria” del narratore barbaricino La violenza antica che sopravvive nell’isola di oggi 

21 dicembre 2020
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Gino Camboni è uno scrittore (ma nella vita ha ricoperto tanti altri ruoli) nato a Cantalice da padre sardo e madre sabina; ha al suo attivo numerosi libri, gran parte dei quali dedicati alla Sardegna. Tra questi mi limito a citare Il continentale; Amori e dèmoni a Uralé; Come ombre dal fiume; A fuoco spento. Il suo ultimo romanzo è Le voci di Sant’Andrìa (Edes Edizioni) con Prefazione di Barbara Fois.

Non sono una critica letteraria e, perciò, non mi avventuro in campi esperti non miei, ma da lettrice mi sono domandata quale fosse il filo narrativo principale. Ebbene, il volume si apre con il racconto di un omicidio, quello di Elia Tolu, che ha una rivendita di materiale edile, ucciso in una strada di San Teodoro: «L’hanno preso in pieno, neppure il tempo di vedere gli assassini… Erano due in moto». E nelle pagine successive emerge anche la scomparsa di un altro personaggio, il giovane tecnico informatico laziale Marco Carosi, ritrovato da due turisti che si erano avventurati «nell’aspro pianeta calcareo del Supramonte». Carosi era il nipote prediletto ed erede principale di Teresa Monne che si era presa cura di lui dall’infanzia fino alla maturità ad Amatrice nella Sabina, «alla morte prematura di sua cognata, Elide madre di Marco», per poi trasferirsi a Tilicoe in «un podere di sua proprietà tra vigneti, alberi da frutta e aromi di erbe selvatiche».

Questi due fatti criminosi, le cui origini sono radicate nel cuore della Sardegna centrale, potrebbero indurre il lettore a pensare di avere tra le mani un libro di chiaro genere thriller, anche perché il primo capitolo ha un titolo assai efficace che sembrerebbe andare in quella direzione: “Oje puru…”. Questo «Oje puru an’attu petza» (oggi pure hanno ucciso qualcuno) è riferito alle parole pronunciate in sardo da tzia Rosaria per non farsi capire dalla nuora senese Silvia, immediatamente dopo aver sentito gli spari che «lacerano l’aria e s’impongono con forza».

In realtà, procedendo nella lettura non ho avvertito la tensione che generalmente si prova per capire chi siano gli autori degli omicidi, anche perché si capisce fin dalle prime pagine quale sia il substrato materiale che ha portato a questi atti di violenza estrema: prestiti non restituiti, traffici illegali, eredità sotterraneamente messe in discussione da famigliari colmi di rancore, e così via. Infatti, la sorella di Elia Tolu, Marta, e suo marito Giulio Bardi, hanno già un’idea di chi possano essere i mandanti perché Elia “aveva confessato di avere contro gente infida, dai lunghi tentacoli e con le mani sporche di sangue”.

Sono altri, invece, gli elementi che hanno attratto la mia attenzione. Anzitutto il fatto che ci siano “due” sguardi sulla Sardegna, o meglio sui luoghi raccontati e attraversati, come Nuoro e Orune; quello di chi qui c’è nato, compreso chi è poi ritornato (come l’insegnante Marta, rientrata in Sardegna dopo la pensione) e quello esterno e più distaccato di chi è diventato sardo di adozione, come Giulio Bardi, marito di Marta, funzionario pubblico in pensione a Foligno. In secondo luogo, mi ha colpito la capacità – assai articolata per la verità – di evidenziare quel substrato culturale che della violenza ha fatto l’ingrediente principale sia contro altri esseri umani sia contro gli animali.

In merito a questi ultimi è emblematica la lettura del capitolo “Tamburi di pelle di cane”.

L’intreccio di storie de Le voci di Sant’Andrìa non riguarda una Sardegna arcaica e agro-pastorale, tutt’altro. I protagonisti principali (e vittime) sono acculturati e si interessano del vasto mondo (dai fatti cruenti di Bataclan al terrbile terremoto di Amatrice), così come gli autori dei delitti hanno densi interessi che del turismo e dei traffici illeciti hanno fatto una fonte redditizia.

In fondo, questo libro mette amaramente a nudo quell’involucro («balentìa del male», come la chiama Camboni) che sembra sì appartenere al passato, ma che resiste perché intriso pienamente di modernità.

©RIPRODUZIONE RISERVATA



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