La Nuova Sardegna

L’assalto alle foreste sarde, una piaga antica che resta ancora aperta

di Eugenia Tognotti
L’assalto alle foreste sarde, una piaga antica che resta ancora aperta

Colonizzatori e imprenditori contro i boschi della Sardegna. Ultimo capitolo l’abbattimento dei ginepri a Capo Caccia

21 dicembre 2020
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L’abbattimento di un ettaro di ginepri e macchia mediterranea nell’area protetta di Porto Conte, in assenza di qualsiasi autorizzazione paesaggistica, nonché della valutazione di incidenza ambientale , non rappresenta solo un insopportabile abuso. Ma anche un irreparabile danno per tutti i sardi, e non solo per quelli della Sardegna nord-occidentale dove si addensano i ginepreti. È un pugno allo stomaco l’immagine di quel pezzo di costa sfigurata, i cui caratteri distintivi derivavano dalla straordinaria bellezza dall’habitat naturale, tra mare e terra, dalla storia umana o dalle loro interrelazioni. Non per niente la nostra Costituzione richiama insieme, in un tutt’uno all’articolo 9, la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione” per i valori che esprimono quali manifestazioni identitarie percepibili.

Colpisce la sconsolata affermazione sulla scomparsa di quelle superbe piante, vecchie di secoli – che nessun contemporaneo, vedrà più – contenuta nel rapporto ufficiale del Corpo forestale. Richiama altri tempi, altri disastri, altri attacchi al patrimonio forestale , altri periodi storici . E in particolare quello che precedette e seguì l’Unità d’Italia in cui i politici, i tecnici, gli osservatori più sensibili , commentavano quasi con le stesse parole, e persino con maggiore durezza, la brutale distruzione dei boschi e della macchia nei bacini collinari e montani, con i suoi deleteri effetti sul regime dei corsi d’acqua e sulla diffusione della malaria nelle pianure dissestate. «Chi non vide le superbe foreste dei salti di Gessa non speri di vederle mai più – scrive negli anni Sessanta del’Ottocento l’erudito sardo Pietro Amat di San Filippo – esse furono senza pietà abbattute dalle accette degli speculatori, ai quali poco caleva dell’avvenire, contenti nel presente di arrotondare il borsellino».

Tra quelli che avevano lo stesso interesse c’era – come denunciavano i contemporanei più avvertiti – l’industriale e banchiere conte Pietro Beltrami, a cui il Lamarmora affibbia l’appellativo di “Attila delle foreste sarde”.

Tra il 1856 e il 1858 Cavour, allora ministro dell’Agricoltura, aveva concesso a quell’importante personaggio, e alla ditta Modigliani, i boschi ex feudali di sughero nel Marghine e nei salti di Gessa e di Oridda nell’Iglesiente, con diritto di carbonizzare. Su queste concessioni si esercita l’ira del deputato nuorese Giorgio Asproni (1808-1876), personaggio di rilievo nella Sinistra repubblicana, esponente di punta della rappresentanza politica sarda. Il 21 maggio 1856 Asproni critica nel suo diario la ridicola locazione dei salti demaniali al conte Beltrami. Prezzo stabilito: un centesimo e mezzo per ettolitro di sughero. Alcuni giorni dopo, il 28, afferma di aver esaminato i contratti in forza dei quali si vendevano allo stesso, per un periodo di 14 anni, i sugheri delle divisioni amministrative di Cagliari e Sassari (quarantuno comuni), per la somma di 2.950 lire: «Non ho visto mai – è il suo critico commento – contratto più enorme per parte del Governo».

Negli stessi anni, l’imprevidenza dei Comuni destinava alla distruzione migliaia e migliaia di alberi: nel 1857, nel territorio comunale del paese di Monti, la ditta Bruno e Casanova di Livorno abbattè, come appare da un documento ufficiale, ben 17.000 piante. La realizzazione degli impianti minerari nei distretti dell’Iglesiente, la crescente domanda di legname da opere, tannino, potassa, corteccia, alburno, carbone vegetale confluirono ad imprimere un’ulteriore accelerazione, all’indomani dell’Unità. Ai ritmi delle distruzioni concorrevano una nuova dinamica delle forze produttive e le stesse opere di civiltà: edilizia pubblica, strade ferrate ecc. L’isola, per dirla con il geografo francese Maurice Le Lannou, uscì allora «abbastanza bruscamente dal suo isolamento e non sempre con vantaggio» per entrare nel circuito economico unitario.

A contribuire allo scempio dei boschi anche le scelte politiche e gli interventi istituzionali. Sulla politica forestale del giovane Stato unitario esprime un giudizio severissimo il grande ingegnere elettrotecnico Angelo Omodeo, impegnato nel primo Novecento nello studio delle condizioni idro-geologiche e meteorologiche della Sardegna. Valutando gli irreparabili danni che aveva provocato al regime delle acque ( di cui stiamo verificando oggi gli effetti) scriveva: «Con una imprevidenza dolorosa si è fatto in Sardegna, dopo la costituzione del regno, un vero sterminio delle foreste che, in proporzione dell’area, erano già meno estese che nel restante territorio italiano». Il riferimento è alla criticatissima legge forestale del 1877, in base alla quale furono svincolati 171.102 ettari di bosco, destinandoli alla distruzione. Un risultato a cui contribuirono anche le scelte dell’intellettualità tecnica locale presente negli ispettorati e nelle intendenze, espressa o comunque influenzata dalla borghesia agraria locale.

Lo scempio compiuto pochi giorni fa nel giardino dell’hotel Capo Caccia è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia. Attila di ieri e Attila di oggi. «Speculatori», appaltatori di lavori pubblici, industriali minerari, imprenditori “forestieri” per lo più, i primi, contro i quali si appuntavano le proteste che denunciava le distruzioni in atto. Per i secondi, invece, noi contemporanei non dobbiamo spingere lo sguardo fuori dall’isola e prendercela con i soliti nemici venuti dal mare.

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