La Nuova Sardegna

Addio al poeta Franco Loi, nel dialetto la verità della vita

di Costantino Cossu
Addio al poeta Franco Loi, nel dialetto la verità della vita

Uno dei maggiori del Novecento italiano si è spento ieri all’età di novant’anni. Il padre cagliaritano e l’intenso rapporto con il Festival della poesia di Seneghe

05 gennaio 2021
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Al tavolino di un bar a Seneghe, durante il festival Cabudanne de sos poetas in un pomeriggio di settembre del 2004. Franco Loi nel piccolo paese del Montiferro era di casa. L’eroica rassegna di poesia che ancora oggi dura, inventata da Flavio Soriga, per lui era diventato un appuntamento fisso. Sino a poco tempo fa non ne perdeva un’edizione. Il poeta di “Strolegh” , di “Teater”, de “L'angel” e di tante altre raccolte che hanno lasciato una traccia forte nella storia della poesia italiana del Novecento, è morto il 4 gennaio nella sua casa di Milano a 90 anni. Suo padre era sardo, cagliaritano di Castedddu.

Ma lui era nato, il 21 gennaio del 1930, a Genova, dove il padre, ferroviere, si era trasferito. Quando gli chiesi, quel pomeriggio di settembre, che ricordo conservava dei suoi genitori, mi rispose: «Mia madre era emiliana e da ragazza andò a fare la domestica a Genova. Lì conobbe mio padre. Lui aveva perso la mamma a sei anni. Ne aveva otto quando morì anche il papà. Nel 1928 andò a vivere a Sanpierdarena da un suo fratello, un operaio specializzato che lavorava ai cantieri navali. L’anno dopo sposò mia madre. Mi parlava spesso di Cagliari. La Sardegna l’ho conosciuta così, dai suoi racconti. Nel primo dopoguerra, quando scrivevo per l'Unità, ho fatto dei reportage dalle zone industriali del Sulcis. Sino ad allora nell’isola non c’ero mai stato. Anche se mio padre lavorava per le Ferrovie dello Stato, la sua era una famiglia di marinai. Suo padre era nato a Savona, suo nonno era di Castellamare di Stabbia. Mi ricordo le lacrime della mamma quando il papà perse il lavoro perché a Mussolini non piacevano i socialisti . Prima non l’avevo mai vista piangere. Mio padre era un grande uomo. Mi ascoltava, mi capiva. E io non ero un ragazzo facile. Lui era silenzioso e mite, come tanti sardi».

Loi è stato uno dei maggiori poeti italiani del dopoguerra. Ha sempre scelto il dialetto per le sue poesie: il genovese, il colornese (di Colorno, in provincia di Parma, era sua madre) ma soprattutto il milanese. Si era rivelato nel 1975 con la sua raccolta più celebre, “Strolegh”, pubblicata da Einaudi con una prefazione di Franco Fortini. Tra le altre opere “Teater”, “L’angel”, “I cart”, “Poesie d’amore”, “Amur del temp”. I temi ricorrenti dei suoi versi erano la guerra, la scoperta del male nella storia, il rimpianto di un paradiso perduto, ma anche la costanza dell’invocazione della preghiera.

«Il dialetto – diceva Loi al tavolino di quel bar di Seneghe – è forma espressiva delle classi oppresse, realtà etica alternativa alle figure dell’inautentico che dominano la realtà contemporanea. Ma non è solo questo. La mia non è stata esclusivamente una scelta di impegno civile o di militanza politica. Vede, nella Divina Commedia, ad un certo punto del canto XXIV del Purgatorio, al poeta stilnovista Bongiunta Orbiciani pare di riconoscere, nel visitatore accompagnato da Virgilio, l’autore della canzone “Donne che avete intelletto d’amore” e Dante, nel confermare a Orbiciani la sua impressione, dice: "I’ mi son un che, quando/ Amor m’ispira, noto, e a quel modo/ ch’ei ditta dentro vo significando”. Una volta un operaio che lavorava il ferro in un’officina genovese mi ha detto più o meno la stessa cosa che intendeva Dante: “Io sgobbo tutto il giorno ma sono contento così, perché amo il mio lavoro. Imparo sempre qualcosa del ferro e di me stesso”. Alla conoscenza di se stessi e del mondo si arriva solo attraverso l’amore. Lungo questa strada si muove la mia poesia». E aggiungeva: «I miei versi sono soprattutto un racconto di emozioni. La dimensione interiore è eterna, non ha tempo: questa è stata la rivelazione che ho voluto raccontare in “Strolegh”. Certo, in quegli anni ero mosso da una forte passione sociale. La stessa, in fondo, di oggi. Però questo aspetto non è mai stato del tutto prevalente nei miei versi, neppure nelle prime raccolte. Io sono vissuto in mezzo agli operai, sono stato comunista, sono entrato nel Pci durante la guerra e ne sono uscito nel 1954 perché ho capito che un’ideologia non poteva darmi la verità della vita. Non si perviene alle leggi universali per via di logica, diceva Albert Einstein, ma per intuizione. E l’intuizione è possibile soltanto nel rapporto amoroso con l’esperienza».

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