La Nuova Sardegna

Don Cannavera: «Muccioli non è un modello, il fine non giustifica i mezzi»

di Michela Calledda
Don Ettore Cannavera
Don Ettore Cannavera

Intervista con il fondatore della comunità di Serdiana: «Il principio su cui deve fondarsi sempre il recupero è quello dell’accoglienza»

10 gennaio 2021
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Dopo anni di silenzio, il tema delle tossicodipendenze è riportato al centro del dibattito pubblico da “Sanpa – Luci e ombre di San Patrignano”, docu-serie diretta da Cosima Spender e prodotta da Netflix. Don Ettore Cannavera, che nel 1994 ha fondato a Serdiana La Collina, comunità che ospita minori agli arresti per reati gravi ammessi a pene alternative, pur avendo guardato alla realtà di San Patrignano con attenzione e speranza ha sempre avuto un approccio e un metodo molto diversi rispetto a quelli di Vincenzo Muccioli di cui oggi si torna a discutere con insistenza.

Perché il tema della tossicodipendenza è cancellato dal dibattito pubblico?

«Da sempre, ma oggi ancora di più, i tossicodipendenti sono considerati lo scarto della società, non c’è attenzione nei confronti di chi finisce nel mondo della tossicodipendenza. L’opinione pubblica non è capace di fare un’analisi approfondita sul perché si cada nella tossicodipendenza, all’opinione pubblica non interessa approfondire le motivazioni. Le stesse istituzioni non hanno alcun interesse per la droga e per i tossicodipendenti: la politica non ha tempo da perdere con i drogati, trascura chi è ai margini. Questa idea, oggi assolutamente prevalente, è degradante perché è proprio chi agisce fuori della legalità, chi è ai margini, ad avere maggiore bisogno dell’attenzione delle istituzioni».

È normale che ancora oggi il discorso pubblico sia incancrenito attorno sulla figura di Muccioli?

«Buona parte dell’opinione pubblica si è convinta che Muccioli agisse per il bene dei ragazzi. La parte restante è contraria al “metodo Muccioli” perché non si può privare un individuo della libertà di scegliere: non si può obbligare nessuno a intraprendere un percorso di recupero. Per un essere umano il bene più prezioso è sempre la libertà, la possibilità di autodeterminarsi, a partire perfino dall’uso di sostanze. L’errore di fondo è considerare unica l’esperienza di San Patrignano. Secondo i dati ufficiali le comunità di accoglienza in Italia sono cinquecento, e accolgono 16mila persone; su tutto il territorio nazionale ci sono circa 200mila persone prese in carico dai servizi pubblici, dal terzo settore, dalle comunità e, sebbene sia al centro del clamore mediatico, San Patrignano ne accoglie 2mila perciò rappresenta solo una parte di un sistema vasto e complesso».

Nel 1978 veniva approvata la legge Basaglia e in quello stesso anno nasceva San Patrignano che presenta molti degli elementi tipici delle istituzioni totali. San Patrignano è l’ inizio di un percorso involutivo sul piano dei diritti?

«Più che di situazione involutiva parlerei di un cammino lento e faticoso nell’affermazione dei diritti fondamentali. Se da un lato Basaglia lavorava sull’ampliamento della libertà, dall’altro Muccioli lavorava sulla privazione. San Patrignano, nel suo bisogno di affermarsi, rispondeva a buona parte dell’opinione pubblica. Ma la scienza psichiatrica, con Basaglia, rispondeva a bisogni universali e fondamentali».

Esiste una ricetta universale per accompagnare una persona fuori dalla tossicodipendenza?

«Sì, si chiama accoglienza. Però, insieme all’accoglienza è necessario rispondere ai bisogni individuali, fondamentali e universali. Spesso si finisce nella droga per incapacità o impossibilità di appagare quei bisogni: la tossicodipendenza è la caduta che avviene quando questi bisogni non trovano risposta e in questo senso la responsabilità maggiore è delle istituzioni: la tossicodipendenza è la conseguenza di quello che non facciamo per rispondere ai bisogni individuali, che coincidono, poi, con i diritti fondamentali dell’essere umano, che sono essenzialmente tre: affetto, lavoro e cultura. Tutti dobbiamo avere la possibilità di essere qualcuno in questo mondo».

Non si sente quasi più parlare di eroina, ma le prigioni scoppiano di tossicodipendenti. Abbiamo deciso di “rimuovere” il problema rinunciando alla cura e negando l’esistenza di soggetti vulnerabili?

«Ciascun essere umano ha bisogno di essere in relazione con l’altro, di occuparsi dell’altro. L’opinione pubblica, soprattutto dopo il ventennio berlusconiano, è culturalmente decaduta e la decadenza di cui parlo implica che ognuno sia attento soltanto a se stesso. La domanda fondamentale è: si nasce o si diventa devianti e/o tossicodipendenti? Io sono convinto che si diventi, l’opinione pubblica guarda soltanto gli atti ed è incapace di porsi domande rispetto alle situazioni che li hanno determinati. E le prigioni scoppiano di tossicodipendenti perché la risposta immediata, in una società che abdica completamente rispetto al senso di responsabilità, è quella di rinchiuderli trascurandone i bisogni e i diritti».

Il proibizionismo è uno strumento adeguato nella lotta alla tossicodipendenza?

«Il proibizionismo non è mai uno strumento adeguato, la priorità è sempre l’educazione. Educare significa rispondere ai bisogni fondamentali della persona: essere ascoltati, essere accolti. La soluzione non è il proibizionismo, ma far sperimentare che l’affetto, la cultura, la capacità relazionale sono fondamentali. Il bisogno di fondo nell’adolescenza è l’affermazione di sé e anche nel proibizionismo c’è la possibilità di affermarsi, però nel male. Io, per esempio, sono favorevole alla legalizzazione delle sostanze leggere se contemporaneamente gli adulti si preoccupano di educare a come rispondere al proprio benessere: affetto, lavoro e cultura».

San Patrignano è stata un modello?

«No, perché il fine non giustifica mai i mezzi. Il lavoro delle comunità è culturale e politico e dovrebbe concentrasi anche sul “dopo”, perché i bisogni e i diritti di chi ha affrontato un percorso di recupero possano essere soddisfatti durante e dopo l’esperienza comunitaria».



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