La Nuova Sardegna

Giancarlo Magalli racconta i fatti suoi: «La mia infanzia in Gallura»

Alessandro Pirina
Giancarlo Magalli racconta i fatti suoi: «La mia infanzia in Gallura»

Le estati tra Calangianus e La Maddalena, la bisnonna che conobbe Garibaldi

19 gennaio 2021
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Gli stazzi della Gallura, le spiagge deserte dell’arcipelago, la bisnonna Genoveffa amica della figlia di Garibaldi, il nonno Angelo che progettò le ferrovie dell’isola, lo zio Pietro senatore a Roma. Quanta Sardegna c’è nei ricordi di Giancarlo Magalli. Il romanissimo conduttore televisivo ha passato l’infanzia tra le sugherete di Calangianus e le acque cristalline della Maddalena. Sono i paesi d’origine dei suoi nonni, Caterina Lissia e Angelo Angiolino, che dopo il matrimonio si trasferirono a Roma, senza però mai recidere il cordone ombelicale con l’isola. Ed è proprio grazie a questo legame che, da bambino, il futuro re del mezzogiorno della Rai ha potuto trascorrere lunghe estati in Gallura, dopo tanti anni ancora cristallizzate nella sua memoria.

Magalli, nelle sue vene scorre sangue calangianese e maddalenino.

«Mia mamma è nata a Roma, ma la madre era di Calangianus e il padre della Maddalena. E poi c’era lo zio Pietro, il fratello di mia nonna, che era senatore. A Calangianus Pietro Lissia è il cittadino più illustre. Gli hanno intestato un sacco di cose».

Da Roma lei veniva spesso a trovare i parenti in Sardegna?

«I nonni venivano sempre a Calangianus perché avevano due stazzi. E poi ogni due anni c’era la scorzatura del sughero. Loro tornavano spesso per queste cose e quando potevo anche io venivo volentieri. Ma in estate andavo soprattutto alla Maddalena. Lì c’era la mia bisnonna Genoveffa. Stava a Padula, mentre d’inverno tornava alla Maddalena, in via Millelire. Ricordo che il balcone della cucina si affacciava sul cinema all’aperto. Quanti film che ho visto gratis».

Le piaceva La Maddalena?

«Tantissimo. Ai tempi le spiagge erano vuote - ho ancora dei filmini girati con mio padre - ma soprattutto andavo volentieri a trovare la mia bisnonna. Era una vecchietta - morì a 99 anni - simpatica e arzilla. E molto affascinante: nonostante l’età leggeva e scriveva tanto. E poi aveva conosciuto Garibaldi, oltre a essere amica della figlia, donna Clelia, che lei andava a trovare ogni tanto. La cosa che più mi stupiva era che trattava con severità mio nonno, il figlio: “Angelo, mettiti il golf”. Ai miei occhi lui era il patriarca della famiglia, ma in Sardegna comandava la mamma».

Suo nonno era un ingegnere.

«Dalla Maddalena era andato a Milano e si era laureato al Politecnico. Poi si era specializzato a Pisa. In Sardegna tutte le prime ferrovie le ha realizzate lui. La Palau-Porto Torres, per esempio. Nonno era una persona conosciuta. E ricordo che ogni volta che veniva nell’isola tornava a Roma con una copia della Nuova Sardegna e mi faceva leggere gli articoli: “l’ingegnere Angiolino arriva dal continente”. Il suo arrivo era una notizia».

Il suo prozio Pietro Lissia invece è stato parlamentare e sottosegretario del Regno d’Italia.

«Ero molto legato allo zio Pietro, lui abitava a Roma, ai Parioli. Dopo la morte della moglie, la zia Emma, viveva da solo in questa casa in cui il ritmo della vita era scandito da una sveglia che funzionava solo se coricata. Ogni sera alle 19 veniva a casa, ascoltavamo il giornale radio e poi tutti a tavola. Eravamo una famiglia numerosa. E il menù era sempre doppio: spaghetti e malloreddus, maialino e abbacchio. E poi i dolci sardi: papassini, seadas, bianchini».

Oggi qual è il suo legame con la Sardegna?

«Dopo che sono morti i miei nonni e poi i miei genitori ho diradato le visite. Non so neppure se ho ancora parenti a Calangianus. Alla Maddalena di sicuro no. L’ultima volta ho portato mia figlia a Calangianus a vedere la fabbrica Geomag nell’ex sugherificio Tamponi. Le ho fatto vedere che il paese dei miei nonni è anche un polo industriale».

Al liceo era in classe con Draghi e Montezemolo: chi era il più bravo?

«Draghi era bravo già da allora. Da poco ho trovato una foto ed era uguale a oggi: stessa pettinatura, stesso sorriso ironico. Io, però, poi ho cambiato liceo e anche compagni: nel secondo c’erano De Sica e Verdone».

Come si è avvicinato al mondo dello spettacolo?

«Si sono intrecciate un po’ di cose nella vita. Già da bambino facevo spettacoli a scuola, al ginnasio presentavo e facevo le imitazioni. Dopo il militare ho iniziato a fare l’animatore in un villaggio turistico. Il primo animatore del primo villaggio turistico. E lì tra gli altri ho conosciuto Pippo Franco, che mi chiese se fossi disponibile a scrivergli le battute. Da quel momento, e per 13 anni, ho lavorato con Pippo. Girammo anche un film ad Arzachena, “L’imbranato”. Ricordo che non trovai posto per l’auto in nave e venni in moto con la mia allora fidanzata: nei giorni liberi facemmo un tour dell’isola, da Tempio a Nuoro. Poi quando Pippo fu preso in Rai continuai a scrivere per lui. E quando creai “No stop” chiamai anche altri attori che avevo conosciuto nel villaggio, come i Gatti di Vicolo Miracoli ed Enrico Beruschi».

Qual è stato l’incontro che le ha cambiato la vita?

«Sicuramente quello con Gianni Boncompagni. Con lui avevo lavorato alla radio insieme ad Arbore. Ma in tv è quello con cui ho fatto le cose più innovative. E poi eravamo grandi amici: mi manca molto. Altrettanto importante è stato Michele Guardì. Mi ha offerto un programma fatto su misura per me, e infatti lo conduco da 30 anni».

Da autore è diventato conduttore quasi per caso.

«Sì, perché dopo la Carrà a presentare “Pronto chi gioca?” era arrivata Enrica Bonaccorti. Al secondo anno Enrica dovette assentarsi perché rimase incinta. E Boncompagni mi disse: “domani tocca a te”. Non me lo aspettavo, ma mi buttai e andò bene. Dopo una settimana Enrica, che nel frattempo aveva purtroppo perso il bambino, tornò in studio, ma la risposta del pubblico c’era stata. E così iniziai anche a condurre».

Da allora, di fatto, è in onda tutti i giorni: come si affronta un impegno quotidiano in tv?

«È un lavoro. Da un lato si perde la paura e anche l’emozione, dall’altra però lo si fa con più naturalezza. A me piace il mio lavoro. Mi ritengo molto fortunato».

Ai Fatti vostri ha raccontato migliaia di storie: c’è qualcuna che l’ha segnata più di altre?

«Sono talmente tante. Però posso dire di avere avuto ospiti Ivana Trump, molto simpatica, che raccontava il divorzio da Donald, e LaToya Jackson, che non amava per nulla il fratello Michael, ai tempi ancora vivo. Ma ricordo anche una bella intervista ad Azouz, il marito di una delle vittime del delitto di Erba. La mandò in onda anche Mentana al Tg5. Gli dissi che prima ero convinto che fosse lui l’assassino, perché avevo dei pregiudizi. Gli chiesi scusa».

Lei è uno dei pochi personaggi che non ha mai tradito la Rai. Mai tentato dalla concorrenza?

«Tentato di sbattere la porta sì perché ogni tanto la Rai non si comporta bene. Una volta ci fu una trattativa con Canale 5. Giorgio Gori, allora direttore, mi ricevette e mi disse: “io la trattativa la faccio ma so che mi farai perdere tempo”. È più forte di me: io a Mediaset, pur riconoscendo la professionalità di chi ci lavora, non mi sento a casa».

Ha lavorato con i più grandi, da Baudo a Proietti, da Arbore a Carrà: ha qualche rimpianto?

«C’è stato un programma che avevo scritto su istigazione di Raimondo Vianello, che in quel momento aveva una pausa contrattuale da Mediaset. Lo proposi alla Rai, ma il dirigente mi chiese un numero zero. Ai nostri tempi bastava mezza paginetta per mettere su uno spettacolo. Non se ne fece nulla. Peccato, lavorare con Raimondo sarebbe stata una meraviglia».

Ha amici tra i suoi colleghi?

«Nello spettacolo è come nella vita. Ci sono quelli decisamente antipatici di cui non capiamo il successo, quelli con cui hai buoni rapporti e poi un numero ristretto di amici. Io non ne ho mai frequentati tantissimi. Ma sicuramente Boncompagni, Frizzi, oggi Max Tortora. E poi Mondaini e Vianello: Sandra mi chiamava ogni sera a mezzanotte per chiacchierare».

Nel 2016 il suo nome fu il più gettonato per il Quirinale: ci ha mai pensato?

«Ma no. Tutto nacque da un sondaggio che fece il Fatto quotidiano. C’erano i soliti nomi: Prodi, Amato. E qualcuno disse: basta con la vecchia nomenclatura, meglio Magalli. E così divenne una moda. Alle quirinarie del Fatto presi 24mila voti. Il quadruplo di Zagrebelsky e il doppio di Rodotà, che un giorno incontrai al ristorante e mi disse: “lei mi ha fatto fare una figuraccia”. Di voti veri in aula però ne presi solo due».

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