La Nuova Sardegna

Il Pci, partito socialdemocratico di massa

di ANTONELLO MATTONE
Il Pci, partito socialdemocratico di massa

Berlinguer si smarcò definitivamente dal modello sovietico, ma non abbandonò la natura “identitaria” del comunismo

21 gennaio 2021
5 MINUTI DI LETTURA





Nel 1919 Karl Kaustsky, dirigente di primo piano della socialdemocrazia tedesca, detto il “papa rosso” per la sua ortodossia marxista, pubblicava un pamphlet, “La dittatura del proletariato”, in cui sosteneva che la dittatura monopartitica dei bolscevichi, la liquidazione degli avversari politici e le collettivizzazioni forzate non avevano nulla a che vedere con le tesi di Marx, che aveva ipotizzato il socialismo come il frutto delle società capitalistiche avanzate e quindi non dell’arretrata Russia. Come è noto, la risposta di Lenin non si fece attendere e nel virulento libello “La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kaustsky” lo accusò di avere abbandonato il marxismo e la causa della rivoluzione proletaria.

Oggi, col senno del poi, dobbiamo ammettere che aveva ragione Kaustsky: il socialismo è inscindibile dalla democrazia, anzi, esso è la forma suprema di quei principi democratici che attraverso il superamento dei diritti formali (libertà d’espressione, di cittadinanza, di uguaglianza innanzi alla legge) portano al conseguimento dei diritti sostanziali (diritto al lavoro, solidarismo sociale etc).

Quando il 21 gennaio 1921 nacque al Teatro Goldoni di Livorno il Partito comunista d’Italia, aderente alla Terza internazionale comunista, fondato da Amadeo Bordiga e dal gruppo torinese de “L’Ordine Nuovo” (Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Umberto Terracini), si verificò una frattura all’interno di quel movimento operaio e socialista che durante l’età giolittiana aveva conquistato importanti obiettivi (otto ore di lavoro, suffragio universale maschile, previdenza sociale etc). Rottura che avveniva nel momento in cui si verificava l’avanzata del fascismo. Il Pcd’I nasceva quindi sulla scorta delle speranze e delle illusioni accese dalla Rivoluzione d’Ottobre, dalla via massimalista del tutto e subito, e dall’ipotesi di una concreta conquista del potere, come non era mai accaduto in passato, a parte la sfortunata esperienza della Comune di Parigi (1871). Il Partito avrà vita breve: solo cinque anni, dal 1921 alle leggi eccezionali del 1926.

Gramsci durante la sua lunga carcerazione si rese conto nei “Quaderni” che nei Paesi occidentali la via per il socialismo era un processo articolato e complesso. A differenza dell’Ottobre sovietico, dove le cannonate dell’incrociatore “Aurora” e l’assalto al Palazzo d’inverno avevano potuto abbattere il governo russo, in Occidente la via al potere implicava la conquista della società civile, attraverso una paziente e lunga egemonia politica e culturale.

L’edizione critica dei “Quaderni” rivela sempre di più un atteggiamento antistalinista di Gramsci con l’implicita consapevolezza del fallimento dell’esperienza bolscevica. Agli occhi dei proletari di tutto il mondo, però, l’Urss era vista come il Paese che aveva liberato l’uomo dello sfruttamento e realizzato il socialismo. Inoltre aveva combattuto il nazionalsocialismo tedesco e aveva fatto sventolare la bandiera rossa sul pinnacolo del Reichstag. Si trattava di un’illusione, di un mito che gli eventi successivi avrebbero drammaticamente infranto.

Il vero costruttore del Partito comunista, dal 1944 al 1964, fu Palmiro Togliatti. Egli era consapevole che in seguito ai trattati internazionali era impossibile una rivoluzione di tipo bolscevico in Italia e si trattava di impostare una politica, la cosiddetta democrazia progressiva, che presupponeva il rispetto e lo sviluppo delle istituzioni democratiche. Il Pci si adoperò infatti nella lotta antifascista, nella conquista della Repubblica e della Costituzione. In sostanza, il partito viveva in quegli anni una contraddizione di fondo: da un lato, recuperava la vecchia tradizione del socialismo italiano, basata sui Comuni, sulle cooperative, sulle leghe, sulla tutela dei lavoratori; dall’altro continuava a rimanere fedele e a riconoscersi, pur con gli opportuni distinguo, nell’Unione sovietica.

Il 1956 fu un anno terribile: da un lato le rivelazioni del XX Congresso del Pcus sugli atroci crimini di Stalin e dall’altro la dura repressione dell’esperienza ungherese posero di fatto il Pci di fronte a scelte decisive. Il grande errore di Togliatti è stato quello di non aver preso, in quella occasione, le opportune distanze dalla politica sovietica. Un grande errore che avrebbe potuto cambiare la storia del nostro Paese. I socialisti infatti in Italia e in Germania condannarono apertamente i fatti d’Ungheria. La via italiana al socialismo, indicata nel Memoriale di Yalta, pubblicato da Luigi Longo nel 1964 dopo la morte de “Il Migliore”, non scioglieva i nodi di fondo: pur riconoscendo l’autonomia italiana all’interno del sistema internazionale per raggiungere il socialismo, dall’altro continuava a mantenere un rapporto con l’Urss, seppur raffreddato dalla condanna dell’invasione della Cecoslovacchia (1968).

L’esperienza politica di Enrico Berlinguer è stata determinante nel marcare definitivamente la differenza del Pci dal modello sovietico. Tuttavia, i veti internazionali su un’eventuale partecipazione del Pci al governo portarono il leader comunista a ipotizzare, con la proposta del compromesso storico, una soluzione di tipo consociativo, e non un’alternanza tra uno schieramento conservatore e uno progressista.

Durante la segreteria di Berlinguer il Pci conquistò nella società italiana l’apice del consenso, dovuto anche al rigore morale e alla capacità amministrativa nei grandi Comuni e nelle Regioni. Tuttavia egli non volle mai abbandonare quella natura “identitaria” del comunismo che oramai era venuto meno, giacché il Pci si era trasformato di fatto in un grande partito socialdemocratico di massa, simile per taluno aspetti a quello tedesco o a quello francese. L’esperienza dell’eurocomunismo aveva avuto infatti vita breve, anche per la diversa natura degli aderenti, con un Partito comunista francese che non aveva mai abbandonato la sua ortodossia filosovietica.

La caduta del muro di Berlino nel 1989 e la dissoluzione dell’Unione sovietica misero il Pci di fronte ad un bivio: continuare a mantenere l’identità comunista o trasformare il partito in una nuova organizzazione democratica e di sinistra. Achille Occhetto, un uomo politico a cui forse non è stato sufficientemente riconosciuto il coraggio e la lungimiranza, con il famoso discorso della Bolognina proponeva la nascita di un nuovo soggetto politico, il Partito democratico di sinistra, che recuperava la migliore eredità del riformismo comunista. Con la nascita del Pds e successivamente dell’Ulivo e del Partito Democratico finiva l’esperienza del Pci, ma a differenza di altri Paesi veniva “salvata” la sua identità più autentica di partito popolare e di massa che aveva difeso e costruito la democrazia del nostro Paese.



In Primo Piano
Politica

Sanità, liste d’attesa troppo lunghe La Regione: «Faremo interventi strutturali»

Le nostre iniziative