La Nuova Sardegna

«I teatri chiusi, per la cultura solo indifferenza»

di Giacomo Mameli
«I teatri chiusi, per la cultura solo indifferenza»

Una scelta sbagliata: «Ci hanno tolto il lavoro  e lo hanno sostituito con un’elemosina» 

25 gennaio 2021
5 MINUTI DI LETTURA





I primi maestri? La nonna Marianna e il padre Nino, da loro ha sentito «storie di vita e di guerra, della barbarie del fascismo, delle SS al Portico d’Ottavia, dei nazisti che hanno massacrato sei milioni di ebrei”. Ha raccontato «storie di contadini e operai, infermieri psichiatrici e operatori di call center, minatori e detenuti». Con “Radio clandestina” ha portato in scena – anche all’estero – l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Lo ha fatto col teatro di narrazione di cui è mito sulla scena internazionale. Premio Ubu (il Nobel del teatro italiano), Premio Flaiano, Premio Bagutta e Premio Gassman e cento altri, amatissimo in Sardegna (partecipa ai principali festival), dalla casa romana in zona Ciampino) commenta la Giornata della memoria per ricordare la liberazione del lager di Auschwitz nel 1945. Dice subito che «il nazifascismo non è stato un meteorite» e che «occorre dotarsi di antivirus civici perché la democrazia va conquistata ogni istante». Chiede: «Ricordiamo le immagini di Capital Hill?».

La Giornata della memoria negli anni dei sovranismi, dei populismi, degli eterni naufraghi nel Mediterraneo, dei nuovi Muri. Qual è la lezione che molti non vogliono capire?

«Durante il lockdown ho intervistato il fotografo Valerio Bispuri. Mi dice che tutti ormai sono in grado di fare una bella foto, ma è “una maniera per aggirare l’ostacolo. Io ho bisogno di andare sempre più in profondità. Voglio cercare cosa c’è dentro l’uomo. Vedere quello che manca. Se tu fotografi un falegname non devi raccontare quello che lui fa, ma quello che lui sente. Perché fa il falegname? Gliel’ha insegnato il padre? È la sua passione? È stata una circostanza? È stato costretto dalla vita? Non devi raccontare che lui fa un mobile, ma capire perché lo fa”. Ecco. Valerio fa un’affermazione che vale per tutte le vicende che conosciamo attraverso i mezzi di comunicazione. Siamo insensibili di fronte a un video, una foto, una storia che ci viene mostrata senza profondità, senza empatia. E, di conseguenza, non facciamo lo sforzo di avvicinarci, di andare in profondità. Ci accontentiamo di ricevere l’informazione».

In questi ultimi mesi sono usciti molti libri con le sconvolgenti tracce dei sopravvissuti: non solo Auschwitz di Primo Levi o Bergen Belsen di Anna Frank: storie sconosciute che fanno capire quale infermo siano stati gli anni ’40.

“Sappiamo molto. Abbiamo documenti di ogni tipo. Testi di storia, film, documentari, romanzi e poesie. Ma più passa il tempo e più gli avvenimenti si trasformano in letteratura. Proviamo a mettere i fatti su un piatto della bilancia e la narrazione di quei fatti sull’altro. Quale dei due pesa di più? Nella nostra coscienza dobbiamo trovare un equilibrio».

Perché l’orrore, i Krematorium diventano grande letteratura?

«Perché raccontano di mostri e paure che stanno dentro tutti noi. Il nazifascismo non è un meteorite caduto sulla terra, ma un prodotto della nostra storia, della nostra cultura».

Col teatro di narrazione lei ha spiegato la storia meglio di tanti libri: perché il teatro dà plusvalore alla Storia?

«Perché le da voce. Ci mette il corpo. E i corpi con le voci diventano personaggi che entrano in relazione tra di loro e anche con lo spettatore».

Quale sarà la sua Giornata della memoria?

«L’anno scorso ero sul palco con “Radio clandestina”, uno spettacolo che porto in scena da oltre vent’anni. Quest’anno i teatri sono chiusi, sarò a casa e passerò la giornata a studiare. Poi la sera con i figli ci vedremo un film. Hanno l’età per vedere quel tipo di cinema che sta tra la commedia e il cinema d’autore. Vedremo “Train de vie” di Radu Mihaileanu, forse».

In questa pandemia, come si è comportato il governo con i lavoratori dello spettacolo?

«Comincio istintivamente con una formula: i lavoratori dello spettacolo sono anche i tecnici e gli organizzatori, non solo gli artisti. Denuncia un senso di colpa che noi artisti abbiamo. È come se ci vergognassimo di fare un mestiere per il quale proviamo amore. E invece io non mi vergogno di farlo e di poterci anche mantenere una famiglia. Ciò premesso in quest’ultimo anno il mio e nostro lavoro s’è polverizzato. Non c’è stata alcuna attenzione per 500mila cittadini ai quali è stato tolto il lavoro e sostituito con una grande elemosina. Nessun settore è stato chiuso come il nostro. Persino i negozi Tiger che vendono dentiere a molla sono aperti, non i teatri. L’elemosina è stata infilata sotto la porta di ciascuno di noi. Per qualcuno è stata persino una benedizione, mentre per la maggioranza è stato un incubo. Il governo non ha alcun progetto per la cultura. Abbiamo fatto mille proposte e non ne è stata accolta nemmeno una. I teatri potevano restare aperti, avremmo lavorato per capire qual è la capienza di sicurezza. Un posto occupato ogni tre? Ogni cinque? Ogni dieci? Invece di far piovere le elemosine a caso, il governo avrebbe pagato gli artisti per lavorare anziché deprimersi in casa».

Insisto. Perché i lavoratori dello spettacolo, per i politici, contano meno dei ristoratori, dei parrucchieri? Evviva il panis, abbasso i circenses?

«Il ministro della cultura Dario Franceschini avrebbe dovuto puntare i piedi e ricordare al presidente del Consiglio che in Italia si fanno bulloni da centocinquant’anni, ma si produce cultura da almeno trenta secoli. E invece è chiaro che tanto l’uno quanto l’altro pensano che la cultura sia un diversivo, uno spasso o, nel migliore dei casi, un bell’impegno per intellettuali dediti all’ozio letterario. Sulla cultura pesa un atteggiamento che è stato ben sintetizzato dal nostro presidente del Consiglio. Noi artisti siamo quelli che fanno sorridere e appassionare. Siamo un prodotto utile a far passare un’oretta di distensione. Un’alternativa all’aperitivo».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

In Primo Piano
Turismo

In Sardegna un tesoretto di 25 milioni dall’imposta di soggiorno: in testa c’è Olbia

di Salvatore Santoni
Le nostre iniziative