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LA STORIA 

Dentro le aule di un carcere, per ricominciare

Dentro le aule di un carcere, per ricominciare

Nella Sardegna come terra di mezzo, luogo di riflessione e d’espiazione, si sono dati appuntamento Piergiorgio Pulixi, l’autore del “Libro delle anime” che ha vinto il premio Scerbanenco 2019, e gli...

07 febbraio 2021
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Nella Sardegna come terra di mezzo, luogo di riflessione e d’espiazione, si sono dati appuntamento Piergiorgio Pulixi, l’autore del “Libro delle anime” che ha vinto il premio Scerbanenco 2019, e gli studenti della casa circondariale di Alghero. Mentore dell’incontro il Salone del libro di Torino con l’iniziativa “Adotta uno scrittore”. Il progetto, come spiega lo scrittore cagliaritano che vive e lavora a Milano, iniziato con incontri in presenza si è trasferito on line per effetto della pandemia, ma è risultata essere uno dei più riusciti, perché più coinvolgente e interattivo. «Adotta uno scrittore – dice il direttore del Salone del libro Nicola Lagioia – è una delle iniziative di promozione della lettura del Salone Internazionale del Libro di Torino in cui negli anni abbiamo investito con più tenacia, certi del fatto che la scuola sia il contesto in cui si formino non solo le nuove generazioni ma anche i futuri cittadini. Ne è testimonianza il fatto che negli ultimi anni c'è stata un’apertura a livello nazionale del progetto, quest’anno ancora più strutturata grazie alla collaborazione con il Centro studi per la scuola pubblica». «Portare –aggiunge Lagioia – le scrittrici e gli scrittori a contatto con gli studenti, portarli nelle scuole – nonché in luoghi di recupero sociale come le carceri – significa assolvere a un importante dovere civico, significa provare a trovare delle risposte sensate alle urgenze del nostro tempo assieme ai ragazzi che sono il futuro del Paese».

Il romanzo di Piergiorgio Pulixi che è entrato nel programma dell’iniziativa del Salone è il primo in cui l’autore noir ambienta il caso in Sardegna, una terra solare e cupa, densa di presagi e di tradizioni che si perdono nella notte del tempo; di paesaggi struggenti ed aspri che i lettori attraversano in un itinerario archeologico e antropologico, puntellato di delitti e ossessioni.

“Adotta uno scrittore” nel carcere di Alghero: ci racconta com’è andata?

«Il progetto legato al Salone del libro va avanti da diciassette anni, ha coinvolto più di centomila studenti e almeno dodici case di reclusione. Io ho partecipato con l’Ipsar di Alghero, insieme alla professoressa Angela Vaudo, e con la dottoressa Luisa Villanti, capo area educativa della casa di reclusione, che avevano impostato il lavoro. La natura del progetto infatti è far dialogare classi delle scuole superiori ‘normali’ e classi ‘particolari’ come quelle all’interno del carcere. A fare da trait d’union tra le classi, Il libro delle anime è stato l’occasione per elaborare percorsi tematici legati alle tradizioni culinarie e all’antropologia della Sardegna. Nello specifico, la quinta dell’Ipsar di Alghero porta avanti un progetto dal titolo “I sapori della natura”, per cui i ragazzi si sono impegnati a rintracciare i piatti presenti nel libro: le ricette di Barbagia, i culurgiones ogliastrini e nei nostri incontri raccontavano le origini delle ricette. Nella classe carceraria mi hanno detto che il libro per loro è stata un’evasione perché li ha portati ad immergersi nei territori della Sardegna, ripercorrerlo in un itinerario da Sud a Nord passando attraverso il regno delle Barbagie per scoprire sapori e profumi. Anche perché molti di loro non sono sardi».

In che modo la narrazione, la letteratura e il noir in particolare diventano strumenti di riflessione su di sé e sulla realtà?

«I ragazzi del carcere hanno una potenzialità inespressa che gli deriva dal non poter visitare fisicamente i luoghi. Anche se molti vanno lavorare, perché sono in semilibertà, non possono entrare in contatto con la natura, non possono fare una passeggiata in una foresta, visitare luoghi di culto nuragici. Per loro è stato un ubriacarsi della natura e delle sensazioni che ho descritto. Mi era già capitato di fare un laboratorio nello stesso carcere ed era emersa in quell’occasione, come ora, la voglia di scrivere. Molti sentivano l’urgenza di esorcizzare le proprie storie proprio perché hanno capito i loro errori e hanno deciso di guardare avanti. Credo sia questo il motivo che ha fatto scegliere loro il percorso educativo nel carcere per diplomarsi o anche per laurearsi. Parte del mio intervento si è concentrato in questo nodo: spiegare loro in cosa consiste la scrittura e come possono sfruttare la scrittura in forma di auto-terapia, per esorcizzare il proprio passato».

Uno dei problemi del carcere, oltre la noia, è la dimensione individuale cui ti relega; i progetti che arrivano dall’esterno attivano la dimensione collettiva, fondamentale in un processo di rieducazione sociale?

«Alghero è un carcere modello e ha una bellissima biblioteca. La dimensione collettiva è difficile da gestire, io ci provo ma soprattutto ci riescono meglio di noi le insegnanti. Più difficile per noi, che in poche ore dobbiamo creare questo tessuto. Bisogna infatti tener conto delle specificità culturali dei ragazzi: molti sono di origine straniera per cui non è possibile portarli tutti sulla stessa lunghezza d’onda e non hanno delle coordinate culturali in cui ritrovarsi immediatamente; quindi è un lavoro di fino e le insegnanti in questo sono strepitose. La cultura, lo studio riescono a ricamare un tessuto tra di loro, li portano a trascorrere insieme un tempo che altrimenti passerebbero da soli o con i propri conterranei».

Cosa ti hanno lasciato gli studenti di Alghero; cosa pensi di aver lasciato loro?

«Come ho detto, nello stesso carcere ero già entrato per un altro laboratorio: consegni i documenti, gli effetti personali, giro di chiave, sbarre; entri in una dimensione di cattività. Negli incontri ho cercato di spiegare loro quanto la lettura serva a corroborare l’anima, sia una compagna di vita, ma soprattutto alleni il muscolo della tua immaginazione e questo l’hanno apprezzato. Molti non leggono per partito preso ma una volta che scoprono la lettura si pentono e scoprono qualcosa che rende la vita più leggera. Io da parte mia ho imparato a non avere pregiudizi. La cosa più straniante è che non hai la percezione del male che i carcerati possono aver fatto, vedi solo ragazzi che ti vengono incontro per capire cosa stai cercando di comunicare loro. La vita porta a fare sbagli ed è difficile giudicare l’uomo, si può solo giudicare la scelta».

Cosa c’entra il noir con la dimensione mitologica? È una moda oppure davvero serve a illuminare la società? A monte del romanzo c’era la volontà di far convergere generi diversi oltre il thriller e il noir: volevo raccontare la Sardegna archeologica e antropologica.

«Il libro è un inno a chi ha raccontato la Sardegna prima di me: Fois, Atzeni, Satta; la Deledda non è mai citata ma di lei è palesemente intriso il libro. Sergio Atzeni in “Passavamo sulla terra leggeri” è stato il primo a creare una sorta di epos legato al territorio: un segreto che la tradizione successiva non ha seguito. Durante una presentazione a Milano in cui parlavo di Sardegna ho scoperto che il pubblico confondeva i nuraghi con i trulli pugliesi. Per me scrivere questo romanzo atipico era un modo per far scoprire la Sardegna attraverso un genere letterario popolare, come lo spaghetti western. Molti mi hanno scritto che verranno in Sardegna usando il libro come itinerario».

La scrittura restituisce una localizzazione toponomastica dell’isola ad ogni capitolo. E’ un viaggio cinematografico. Lo vedremo in streaming su Netflix come la trilogia del Baztan di Dolores Redondo?

«Ci sono stati contatti da parte di produzioni televisive, ma non è facile. Quanto alla Spagna è stata tra le prime a comprare i diritti di traduzione perché tra noi e loro ci sono molte affinità».

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