Mille racconti per difendersi dall’epidemia
di SALVATORE NIFFOI
“Il sogno dello scorpione”: Salvatore Niffoi ritorna con un nuovo visionario romanzo
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Pubblichiamo un estratto dal nuovo romanzo di Salvatore Niffoi “Il sogno dello scorpione” (Edizioni Il Maestrale)
* * *di SALVATORE NIFFOIUno scorpione grosso come un pugno si agitava tra la camicia e la schiena pinzandogli la carne fino a farla sanguinare. Il pungiglione rilasciava lentamente il suo veleno infuocato nelle vene e la pelle s’induriva come una crosta bruciata. Era di colore viola scuro con strisce ambrate sul dorso e tanti occhi minuscoli come perle di ossidiana. Si agitava, elettrico e nervoso. Cercava una via d’uscita senza trovarla, per questo continuava a pungere e scavare come impazzito.
Felle Tamale era steso a pancia in giù sopra una lapide di marmo, tra le rovine della chiesa abbandonata di Santu Jacu. Intorno a lui angeli barocchi, acquasantiere, campane, calici di bronzo, agnelli squartati appesi ai cipressi, aspersori d’argento, ostie muffite e alte pile di pane carasau appena sfornato.
Aveva i piedi e le mani legate, in bocca uno straccio che sapeva di trementina. In lontananza, oltre le mura del vecchio cimitero di Sos Alipintos, sentiva i lamenti della buonanima di sua madre che piangeva e gridava: «Attento, Felleddu! Attento figlio mio, che il tempo del demonio si avvicina!».
Quella voce sembrava uscire da un corno di bue nascosto tra le rocce e si riverberava tra le montagne amplificata dalle conche scavate dal vento.
Felle non poteva rispondere. Solamente alla fine del sogno lo scorpione riuscì a tagliare la camicia e a liberarsi. Mise ali bianche d’angelo e artigli d’astore, poi andò a volare lontano, girando intorno al nuraghe Malune. «Ohi madre mia del cielo, che sembrava proprio tutto vero!».
Felle Tamale si svegliò di scatto, come un sepolto vivo cui scoperchiassero la bara e vedesse la luce all’improvviso. Aveva gli occhi squagliati dal terrore, il cuore che gli danzava dentro il petto con rumore di pietra di fiume che rotola a valle. Dulùn, dulùn, dulùn, dulùn.
Felle, con le gambe trèmula trèmula, si alzò in fretta e cercò uno straccio per asciugarsi la fronte.
Il sudore aspro di quel sogno maligno se lo sentiva addosso in tutta la carena come una coperta intrisa di pece. Si annusò il petto e le braccia, quasi gli venne da cacciare fuori l’anima. Fetore di ghiandole malate crepate a coltello, puzza di uno che si era appena imbrastiato con letame e piscio di porco. All’inizio pensò a uno scherzo del destino, a un cuneo di ferro che qualcuno per sbaglio gli aveva conficcato nella testa.
«Ohi, ohi, San Giacomo figlio del tuono, aiutatemi voi!». Come pronunciò il nome del santo arrivò una grossa nuvola a forma di corona. Un fulmine fece esplodere il cielo che si divise in mille pezzi. L’odore cattivo che Felle Tamale si portava addosso sparì quasi subito. La paura di quella brutta visione, invece, gli rimase come una cicatrice in fondo agli occhi, un solco nella memoria scavato da una lingua di fuoco.
Attenzione! Attenzione!
Felle cliccò a vuoto per due volte il tasto della peretta di plastica sopra la spalliera del letto. Si accorse che non c’era corrente. La luce era volata via, lasciando la stanza in un buio vellutato. Si era dileguata in silenzio lungo i fili, cercando rifugio fra gli strampili delle acque di Conca de sa Fèmina e i canneti delle piscine di Su Ghettadorgiu. Faceva un caldo insopportabile e le pareti erano diventate lastre di piombo.
Taniella Pistiddu dormiva su un fianco sbuffando a intermittenza. Per non svegliare la moglie, Felle si mosse piano infilando le ciabatte e andò tentoni verso la finestra. Sul lungo viale alberato ad olmi e gelsi le lampade somigliavano a pere cotte al sole. Con gesti frenetici e veloci, persone indaffarate come formiche nella paglia, caricavano suppellettili, stoviglie, indumenti, provviste, gatti, bambini, scarpe avvolte in fogli di giornale. Altre giacevano per terra come addormentate, alcune erano state ricoperte da un lenzuolo bianco e segnate a pennello con una croce nera e delle iniziali.
Dalla sommità del torrione saraceno di punta Papalai una civetta intonava la sua nenia triste, roteando gli occhi gialli come biglie di sole nelle orbite troppo larghe.
A valle, oltre il passo di Malumele, le cicale frinivano impazzite, battendo sui loro tamburi addominali messaggi di morte. La luna si lasciava portare lontano rotolando dentro un’aureola solferina, come se avesse fretta di andar via, per lasciare al proprio destino i paesaggi scolpiti nel granito, gli uomini, le capre e le loro millenarie abitudini.
Felle Tamale tornò vicino al letto, aprì il comodino cercando di non fare rumore e prese la torcia cromata. Il primo clic andò a vuoto, il secondo regalò soltanto un gemito di luce e poi la torcia si spense.
«Pile di merda, durano meno del vino in dispensa», maledisse sottovoce. Ma quando inciampò sul tappeto e si trovò con il muso vicino all’orinale, iniziò a sgranare a raffica un rosario di imprecazioni e bestemmie.
«Ma porco Giuda, questa notte tutti i santi hanno deciso di prendersela con me! Cazzo di un Santo Dio benedetto, si sono consumate le pile e per poco non mi rompo pure la testa. Dimònios maleittos, cosa avete deciso di rivoltare il mondo? ».
Taniella si svegliò di soprassalto e, tenendosi la mano sinistra nella porta del cuore, lo apostrofò malamente: «Oh Felle, ma cosa ti è preso, non ti vergogni a cominciare a bestemmiare ancora prima che spunti il sole? Ti sembra questa l’ora di metterti a giocare con quella pila? Sempre il solito sei, non dormi e non ne lasci dormire! Se sei nervoso vai in cucina, beviti una tisana e torna a letto quando ti sei calmato».
Felle Tamale non rispose. Inghiottì un grumo di saliva amara e, mugugnando, puntò verso l’andito e arrivò dritto in cucina. Da un cassettone prese due steariche e il resto di un moccolo che a lungo aveva lacrimato al centro del piattino di ferro smalto.
Sciuuum.
Lo accese dopo aver sfregato uno zolfa sul muro, poi si lasciò andare sopra una sedia vicino al camino spento che aveva da poco spennellato di turchese sopra lo scuro della fuliggine. Aveva bisogno di concentrarsi per ricordare, per ricucire le trame confuse e sfilacciate della sera prima.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
* * *di SALVATORE NIFFOIUno scorpione grosso come un pugno si agitava tra la camicia e la schiena pinzandogli la carne fino a farla sanguinare. Il pungiglione rilasciava lentamente il suo veleno infuocato nelle vene e la pelle s’induriva come una crosta bruciata. Era di colore viola scuro con strisce ambrate sul dorso e tanti occhi minuscoli come perle di ossidiana. Si agitava, elettrico e nervoso. Cercava una via d’uscita senza trovarla, per questo continuava a pungere e scavare come impazzito.
Felle Tamale era steso a pancia in giù sopra una lapide di marmo, tra le rovine della chiesa abbandonata di Santu Jacu. Intorno a lui angeli barocchi, acquasantiere, campane, calici di bronzo, agnelli squartati appesi ai cipressi, aspersori d’argento, ostie muffite e alte pile di pane carasau appena sfornato.
Aveva i piedi e le mani legate, in bocca uno straccio che sapeva di trementina. In lontananza, oltre le mura del vecchio cimitero di Sos Alipintos, sentiva i lamenti della buonanima di sua madre che piangeva e gridava: «Attento, Felleddu! Attento figlio mio, che il tempo del demonio si avvicina!».
Quella voce sembrava uscire da un corno di bue nascosto tra le rocce e si riverberava tra le montagne amplificata dalle conche scavate dal vento.
Felle non poteva rispondere. Solamente alla fine del sogno lo scorpione riuscì a tagliare la camicia e a liberarsi. Mise ali bianche d’angelo e artigli d’astore, poi andò a volare lontano, girando intorno al nuraghe Malune. «Ohi madre mia del cielo, che sembrava proprio tutto vero!».
Felle Tamale si svegliò di scatto, come un sepolto vivo cui scoperchiassero la bara e vedesse la luce all’improvviso. Aveva gli occhi squagliati dal terrore, il cuore che gli danzava dentro il petto con rumore di pietra di fiume che rotola a valle. Dulùn, dulùn, dulùn, dulùn.
Felle, con le gambe trèmula trèmula, si alzò in fretta e cercò uno straccio per asciugarsi la fronte.
Il sudore aspro di quel sogno maligno se lo sentiva addosso in tutta la carena come una coperta intrisa di pece. Si annusò il petto e le braccia, quasi gli venne da cacciare fuori l’anima. Fetore di ghiandole malate crepate a coltello, puzza di uno che si era appena imbrastiato con letame e piscio di porco. All’inizio pensò a uno scherzo del destino, a un cuneo di ferro che qualcuno per sbaglio gli aveva conficcato nella testa.
«Ohi, ohi, San Giacomo figlio del tuono, aiutatemi voi!». Come pronunciò il nome del santo arrivò una grossa nuvola a forma di corona. Un fulmine fece esplodere il cielo che si divise in mille pezzi. L’odore cattivo che Felle Tamale si portava addosso sparì quasi subito. La paura di quella brutta visione, invece, gli rimase come una cicatrice in fondo agli occhi, un solco nella memoria scavato da una lingua di fuoco.
Attenzione! Attenzione!
Felle cliccò a vuoto per due volte il tasto della peretta di plastica sopra la spalliera del letto. Si accorse che non c’era corrente. La luce era volata via, lasciando la stanza in un buio vellutato. Si era dileguata in silenzio lungo i fili, cercando rifugio fra gli strampili delle acque di Conca de sa Fèmina e i canneti delle piscine di Su Ghettadorgiu. Faceva un caldo insopportabile e le pareti erano diventate lastre di piombo.
Taniella Pistiddu dormiva su un fianco sbuffando a intermittenza. Per non svegliare la moglie, Felle si mosse piano infilando le ciabatte e andò tentoni verso la finestra. Sul lungo viale alberato ad olmi e gelsi le lampade somigliavano a pere cotte al sole. Con gesti frenetici e veloci, persone indaffarate come formiche nella paglia, caricavano suppellettili, stoviglie, indumenti, provviste, gatti, bambini, scarpe avvolte in fogli di giornale. Altre giacevano per terra come addormentate, alcune erano state ricoperte da un lenzuolo bianco e segnate a pennello con una croce nera e delle iniziali.
Dalla sommità del torrione saraceno di punta Papalai una civetta intonava la sua nenia triste, roteando gli occhi gialli come biglie di sole nelle orbite troppo larghe.
A valle, oltre il passo di Malumele, le cicale frinivano impazzite, battendo sui loro tamburi addominali messaggi di morte. La luna si lasciava portare lontano rotolando dentro un’aureola solferina, come se avesse fretta di andar via, per lasciare al proprio destino i paesaggi scolpiti nel granito, gli uomini, le capre e le loro millenarie abitudini.
Felle Tamale tornò vicino al letto, aprì il comodino cercando di non fare rumore e prese la torcia cromata. Il primo clic andò a vuoto, il secondo regalò soltanto un gemito di luce e poi la torcia si spense.
«Pile di merda, durano meno del vino in dispensa», maledisse sottovoce. Ma quando inciampò sul tappeto e si trovò con il muso vicino all’orinale, iniziò a sgranare a raffica un rosario di imprecazioni e bestemmie.
«Ma porco Giuda, questa notte tutti i santi hanno deciso di prendersela con me! Cazzo di un Santo Dio benedetto, si sono consumate le pile e per poco non mi rompo pure la testa. Dimònios maleittos, cosa avete deciso di rivoltare il mondo? ».
Taniella si svegliò di soprassalto e, tenendosi la mano sinistra nella porta del cuore, lo apostrofò malamente: «Oh Felle, ma cosa ti è preso, non ti vergogni a cominciare a bestemmiare ancora prima che spunti il sole? Ti sembra questa l’ora di metterti a giocare con quella pila? Sempre il solito sei, non dormi e non ne lasci dormire! Se sei nervoso vai in cucina, beviti una tisana e torna a letto quando ti sei calmato».
Felle Tamale non rispose. Inghiottì un grumo di saliva amara e, mugugnando, puntò verso l’andito e arrivò dritto in cucina. Da un cassettone prese due steariche e il resto di un moccolo che a lungo aveva lacrimato al centro del piattino di ferro smalto.
Sciuuum.
Lo accese dopo aver sfregato uno zolfa sul muro, poi si lasciò andare sopra una sedia vicino al camino spento che aveva da poco spennellato di turchese sopra lo scuro della fuliggine. Aveva bisogno di concentrarsi per ricordare, per ricucire le trame confuse e sfilacciate della sera prima.
©RIPRODUZIONE RISERVATA