La Nuova Sardegna

La Traviata di Martone contro la legge dei padri

di Paolo Petrone
La Traviata di Martone contro la legge dei padri

Quasi un milione di ascolti su Rai3 per la trasposizione cinematografica dell’opera di Verdi. Una rilettura che mette sotto accusa il dominio maschile

11 aprile 2021
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ROMA. È il simbolico letto di Violetta in mezzo al palcoscenico, che si contorna nel momento del sogno d’amore di un bosco da favola, da melodramma grazie a quinte ottocentesche dipinte, e rimane poi solo, zattera su un palcoscenico vuoto, nudo per il finale drammatico di questa “Traviata”, seconda nuova produzione lirica di questa fantasmatica stagione in tempi pandemici di un’Opera di Roma vitale e che non si arrende, con Daniele Gatti sul podio e la regia di Mario Martone, che ne ha costruito una versione teatral-cinematografica per la tv. Rai3, dopo il successo di un analogo “Barbiere di Siviglia”, l’ha ora trasmessa in prima serata. Decisione premiata da un ascolto di 967mila telespettatori, con uno share del 3,9%.

LETTO SCARLATTO. Un letto tutto scarlatto all’inizio, simbolo di lussuria e su cui vengono lanciate tante giacche, cappotti, soprabiti dei molti uomini che vi sono passati tra le braccia di Violetta, bella immagine a rendere il peso del suo passato di cortigiana e mantenuta, e che sarà l’ostacolo alla sua redenzione con l’amore per Alfredo, perché il padre di questi la convincerà a lasciarlo, per il bene di tutti prigionieri delle convenzioni. Del resto già Dumas figlio, autore de “La signora delle camelie”, romanzo e dramma da cui nasce Traviata, e quindi Verdi e il librettista Piave avevano scelto questo dramma contemporaneo, borghese, con l’intenzione di denunciare la società patriarcale regolata da rigidi principi morali e d’onore, più forti d’ogni sentimento e che vincolano il comportamento di tutti, volgendolo in tragedia. Martone ha puntato su questa denuncia e Violetta non muore più, come è tradizione, nel suo letto tra le braccia di Alfredo, tornato a lei pentito per giurarle il suo amore, ma nel momento in cui ha l’ultimo sussulto vitale prima della fine, si alza dal letto e è improvvisamente sola mentre spira in proscenio (tagliate anche alcune battute finali di contorno). Alfredo non c’è più con lei, è sparito come tutto il suo ritorno fosse stato un sogno, un delirio di lei febbricitante stremata dalla tisi.

RITMI RAFFINATI. Anche la direzione musicale di Gatti punta quindi non solo sul vorticare dei valzer delle feste, che molti fanno diventare una sorta di gorgo che inghiotte tutto sino alla fine, ma lavora su ritmi più distinti, vari e raffinati, a sostenere e mostrare l’azione e la psicologia dei personaggi come Verdi la intendeva, senza tutto quel colore che anche le regie esaltavano con l’arrivo delle zingarelle e dei matador spagnoli, che sono solo signori aristocratici in maschera che partecipano a una festa di carnevale, come per primo sottolineò Visconti nella sua storica regia con la Callas nel 1955.

GIOIE E SOFFERENZE. Le due grandi feste da ballo (coreografie di Michela Lucenti e costumi che alludono all’epoca di Anna Biagiotti), momenti dionisiaci di sfrenatezza sociale, nel contrasto con i sentimenti, le gioie e le sofferenze dei personaggi, ancor più evidenziano l’ipocrita formalità generale, e sono connotate dagli altri due principali oggetti scenici: un lungo tavolo imbandito nella platea vuota (senza sedie come non ci sono del resto spettatori) e sceso giù su di esso ad altezza d’uomo il gigantesco lampadario centrale del teatro (8 metri di diametro e oltre 27 mila cristalli) a rendere tutto il luccicare della festa che si riverbera nei «lieti calici» di champagne. Un’immagine che ancor più fa risaltare il vuoto del teatro, emblematico in questo momento, su cui Martone insiste, usandolo in tutte le sue parti, compreso foyer e corridoi, e aggiungendo alcuni esterni, a Caracalla (sede degli spettacoli estivi dell’Opera), dove mostra il duello tra Alfredo e il barone, e nella via laterale del Costanzi, dove Viloletta dalla finestra vede la gente sfilare festosa in maschera.

TEATRO VUOTO. Una simile produzione, portata avanti come un set cinematografico (fotografia di Pasquale Mari), pensando a movimentare le situazioni teatrali col montaggio e ripetendo più volte alcune scene non consequenzialmente, con musica e voci sempre dal vivo, è stata una vera sfida e prova di resistenza e abilità per i cantanti guidati anche a cercar di recitare veramente, per quel che permette l’intenso impegno canoro.

SOLO IL SILENZIO. Tutti quindi da lodare, a cominciare dai due protagonisti, Lisette Oropesa, ottima e sperimentata Violetta di bella voce pulita e che interpreta molto credibilmente nelle sue gioie e sgomenti, e Saimir Pirgu, Alfredo vocalmente intenso e che si impegna per quel che può a rendere recitando, con suo padre di Roberto Frontali che è voce sperimentata ma prigioniero di una fisica rigidità, mentre è più vera la cameriera di Angela Schisano, cui si aggiungono la Flora di Anastasia Boldyreva e il barone Douphol di Roberto Accurso, con accanto anche vari cantanti usciti da Fabbrica Young Artist Program dell’Opera di Roma. E alla fine, tutti usciti di scena, resta solo il silenziosissimo vuoto del teatro, col gran lampadario che risale malinconico, mentre scorrono i titoli di coda.

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