La Nuova Sardegna

Padre e figlio rinchiusi nella prigione del rancore

di Alessandro Marongiu
Padre e figlio rinchiusi nella prigione del rancore

Da oggi in libreria “Nessuno resta solo”, nuovo romanzo di Alessandro De Roma Un ragazzo inquieto, vagabondo, omosessuale e un genitore che fatica a capirlo

13 aprile 2021
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Dopo un romanzo come “La mia maledizione”, tra i più belli della recente narrativa italiana, l’attesa per un nuovo libro di Alessandro De Roma era alta. Di tempo ce n’è voluto un po’ (tanto, in verità: sette anni), ma finalmente “Nessuno resta solo” (Einaudi, 216 pagine, 17,50 euro) è nelle librerie dal 13 di aprile. Vi ritroviamo tutte le qualità che il ghilarzese ha saputo esprimere nelle precedenti cinque uscite: l’attenzione puntata su personaggi solo all’apparenza ordinari, ma con in realtà un doppio (o triplo) fondo nero dentro l’animo; lo scavo nelle dinamiche relazioni, spesso dolorose, e in particolare in quelle laceranti che si possono creare in seno a una famiglia; una scrittura di sintesi, non di rado capace di sentenze fulminanti («A quanto pare, crescere significa soprattutto saper venire fuori da una serie di intimidazioni»). I temi di “Nessuno resta solo” sono tanti: l’accettazione (o meglio: la non accettazione) della nostra natura, quale che sia, da parte di chi ci è o ci dovrebbe essere più caro; la possibilità di vivere in maniera aperta, e pubblicamente, il lutto per la perdita della persona amata se quella persona è del nostro stesso sesso; la distorsione della Storia e il suo insegnamento. Al centro, il rapporto ormai appeso a un esile filo tra Guido Floris, docente in pensione appena rimasto vedovo, e suo figlio Antonio, che poco prima della madre ha perso in un incidente anche il compagno Nicola, con cui stava per trasferirsi in Francia per cominciare una nuova vita.

Lo spunto iniziale è venuto a De Roma dalla cronaca.

«Sì, sono rimasto molto colpito – ci dice l’autore – quando un notissimo cantautore italiano è morto e al suo funerale (così come nelle successive celebrazioni televisive) non si è mai potuto parlare della sua vita sentimentale. Credo che l’omosessualità ancora oggi sia “tollerata” e non davvero accettata, lo si vede molto bene quando si tratta di affrontare i momenti fondamentali della vita, come appunto la morte del proprio compagno e, al di fuori della cerchia più stretta degli amici cari e, a volte, della famiglia, un omosessuale resta comunque spesso un fantasma.»

Tanto per i genitori di Antonio, Guido e Lucia, persone benestanti e acculturate che vivono nella grande città, quanto per la madre e le sorelle del suo compagno Nicola, che vivono in condizioni modeste in un piccolo centro, i due si possono chiamare – e quindi considerare – giusto “coinquilini”, al massimo “amici”. Che abbiano formato una coppia non è un segreto per nessuno, ma del rapporto non si può parlare, non lo si può nominare per ciò che è realmente. La differenza di status tra le due famiglie pare suggerirci che questa ipocrisia, questo camuffamento, che riguardano sia la sostanza che la forma e che spesso sono manifestazioni di un sentimento di vergogna, non solo esistono ancora oggi, ma non hanno purtroppo mai smesso di essere trasversali.

«Guido Floris è un professore di Storia, vicino alla sinistra, un intellettuale, eppure non è molto più a suo agio della madre e delle sorelle di Nicola davanti alla vita del proprio familiare “innominabile”. È un uomo di un’altra epoca, certo, però credo che sulle libertà individuali siano sempre esistiti molti fraintendimenti anche nella storia della sinistra italiana, dove non hanno spesso trovato pieno sostegno nemmeno personaggi come Pasolini o, ancor più, Aldo Braibanti, poeta e artista poi condannato alla prigione per plagio e il cui giovane compagno (giovane ma maggiorenne) fu sottoposto a 50 elettroshock perché considerato fragile dalla sua famiglia conservatrice. Forse solo il partito radicale in Italia può davvero vantarsi di aver sempre combattuto fino in fondo le più difficili battaglie per i diritti civili».

Il rapporto tra Antonio e Guido è sempre stato difficile, ma ormai si è ridotto a pochi e frettolosi scambi telefonici: l’unica dimostrazione di affetto tra i due, si fa per dire, sono le scatole di medicine comprate all’estero che il figlio manda al padre a mo’ di regalo. Neppure il rapporto di Antonio con Lucia, seppur meno teso, è buono. Anche in questo romanzo lei torna a indagare l’ambito famigliare: perché ne è così interessato, così affascinato?

«La famiglia è un rifugio che spesso diventa prigione, le dinamiche che si creano possono molto facilmente diventare opprimenti e, per una persona come Tonio, che deve vivere in segreto quasi tutti i suoi sentimenti più intimi, l’aria da respirare scarseggia molto in fretta. Del padre rifiuta anche la stanzialità e diventa un giramondo. Rifiuta il successo accademico e diventa un lavapiatti e poi un cuoco: uno che si arrangia con i mestieri che trova e sceglie la precarietà per avere uno spazio autentico di vita, fuori dalle mura domestiche che lo hanno oppresso nell'adolescenza».

Mirko Sale è un laureando in Storia che si rivolge a Guido, ex docente universitario iscritto al Pci che nei suoi saggi si è dedicato unicamente o quasi alla presenza del fascismo in Sardegna, per un parere sulla sua tesi. «Io non so che libri ha letto lei, ma nei miei non c’è nessuna esaltazione del regime: ci sono solo dati statistici, economici, sociali» dice Guido al giovane Mirko, che ha travisato tutto il suo lavoro e gli risponde: «Solo la verità, infatti. È per questo che sono così efficaci». Come a dire: la Storia non può essere solo una faccenda di numeri, non si può prescindere dalla sua interpretazione, pena la miscomprensione e il rischio, ancora peggiore, della mistificazione.

«La Storia è un campo minato, se la si fa in modo serio, occorre essere scientifici, e tuttavia non si può non prendere posizione su certe questioni. In ogni caso sul fascismo l’Italia non ha minimamente messo in ordine gli archivi della memoria e i dissesti morali sono tutti lì, da sistemare. Viviamo una memoria storica fondata sul rancore reciproco, proprio come in una famiglia nella quale nessuno osi ammettere i propri errori, anche quando sono crimini veri e propri.

Restando in tema: sono anni che nel dibattito pubblico, specie in quello politico, la Storia viene delegittimata e volontariamente confusa con la memoria. Il trattamento riservato alla materia nelle scuole, come potrà testimoniare lei che la insegna nei licei, non è di certo migliore. Quali ritiene siano i motivi?

«Il problema è che due o al massimo tre ore a settimana non sono davvero sufficienti per trattare in modo approfondito certi argomenti. Si fanno spesso delle “carrellate” o peggio delle celebrazioni in occasione di anniversari importanti. Ma credo che la conoscenza dei fatti storici (è questo che a scuola si può fare in quelle poche ore) debba accompagnarsi alla capacità di problematizzare quei cosiddetti fatti, saperne riconoscere la complessità e saperli portare nel dibattito pubblico quando si diventa cittadini. È un ruolo che spetta a tutta la società. A scuola la Storia serve per capire chi siamo, certo, ma soprattutto chi vorremmo essere, a chi ci piacerebbe somigliare e a chi no».

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