La Nuova Sardegna

L’Asinara in vetrina alla Biennale di Venezia

di Alessandro Melis *
L’Asinara in vetrina alla Biennale di Venezia

Il curatore sardo del Padiglione Italia spiega il senso della resilienza nei territori e immagina un futuro sostenibile

23 maggio 2021
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L’incarico come curatore del Padiglione Italia alla XVII Biennale di Architettura è stato, per me, l’opportunità per viaggiare attraverso le comunità resilienti italiane. Ho così scoperto un mondo che non conoscevo, fatto di entusiasmo e di risorse inesauribili e, a volte, sorprendenti. In Italia, ancora oggi esiste una consapevolezza distintiva sul legame tra suolo produttivo e architettura, da cui deriva un paradigma di architettura e paesaggio intesi come variazioni di un continuum. Prima che questa relazione diventasse discontinua, soprattutto nel dopoguerra, la compattezza e l’integrazione delle comunità italiane con la natura sono state spesso indicate come modelli di resilienza nella letteratura sulla città.

Il risultato della condivisione delle conoscenze culturali, con le comunità locali, è la produzione di dispositivi artistici, che costituiscono, oggi, un racconto composito, che, sono certo, susciterà l’interesse dei visitatori del Padiglione Italia.

Siamo, infatti, oltre il punto di non ritorno di una crisi dovuta al continuo altalenare della società umana tra le istanze di azione e di immobilità. Il team curatoriale del Padiglione Italia, attraverso le sezioni come quella di “Arte e paesaggio”, dove è presente l’allestimento dell’isola dell’Asinara in cui ho coinvolto Annacaterina Piras, fondatrice dell’associazione LWCircus, intende quindi dichiarare apertamente la propria posizione: lo status quo non è una opzione. Il concetto di artificialità, in architettura, deve essere rinegoziato in chiave ecologica. La questione è già stata affrontata nell’ambito della biologia dell’evoluzione, attraverso la critica alla cosiddetta “scacchiera di Huxley”. Per questa ragione, il contributo transdisciplinare al progetto di Telmo Pievani, per esempio, è essenziale per la comprensione, in chiave strategica, delle questioni sulla pressione ambientale esercitata dalle nostre città. Grazie al valore euristico della biologia, scopriamo che diversità, variabilità e ridondanza delle strutture creative sono alla base della resilienza di ogni agente, naturale o artificiale, presente nel paesaggio. Ne consegue che se gli insediamenti umani (o le costruzioni nel loro insieme) sono la principale causa della crisi ambientale e dunque, di fatto, un’arma di distruzione di massa, questi hanno evidentemente fallito nel loro primo obiettivo, cioè quello di favorire lo svolgimento, possibilmente confortevole, della nostra vita su questo pianeta.

Occorre sottoscrivere una nuova alleanza con la natura, partendo dal presupposto che questa è già sopravvissuta al 99% delle estinzioni di specie, attraverso la comprensione di principi come la “costruzione di nicchia”: ogni presenza in una determinata nicchia ambientale è il prodotto di ogni azione e reazione tra ambiente e organismi presenti nella stessa nicchia. Tutti gli esseri (umani, non umani e inanimati) presenti nell’ecosistema sono quindi agenti attivi. La sopravvivenza di ogni organismo dipende dalla propria resilienza rispetto alle azioni (degli agenti). Per resilienza qui si intende, semplicemente, la capacità di adattamento di ogni organismo, rispetto all’ambiente della propria nicchia. Nel caso del genere umano, lo spostamento dalla propria nicchia (emigrazione) è stata tra le strategie di maggior successo. Dobbiamo pertanto aspettarci flussi migratori di proporzioni bibliche se consideriamo che quella presente è la maggiore crisi ambientale con cui l’umanità si è dovuta confrontare.

Dai calcoli delle mie ricerche (non più aggiornati e dunque probabilmente ottimistici) risulta che oggi un miliardo di persone su sette vive sotto il livello minimo di nutrizione, nonostante lo sfruttamento del 98% del suolo coltivabile, corrispondente a circa un terzo della superficie emersa. Intorno al 2050, con una riduzione del suolo coltivabile di circa il 12% (innalzamento dei mari e desertificazione) e con nove miliardi di abitanti sul pianeta, ci troveremo immersi in una guerra totale, dato che difficilmente nessuna condizione politica può rimanere stabile rispetto alla pressione sociale del 50% della popolazione mondiale che vive sotto il livello di nutrizione minima.

Le suddette considerazioni non tengono in considerazione i fenomeni di feedback come, per esempio, il riscaldamento dovuto all’abbassamento esponenziale dell’albedo, a causa della riduzione dei ghiacciai. E non tengono neanche in conto gli effetti negativi della crisi ambientale sulla salute, di cui il COVID-19, l’Ebola, l’aumento di diffusione del West Nile Virus e della febbre Dengue sono i primi sintomi. In un mondo in cui, tuttavia, la desertificazione nella zona subsahariana procede a una velocità di dieci metri al giorno, l’emigrazione, come ogni altra risposta “lineare” alla crisi, non basterà più.

A mio giudizio deve essere discusso, soprattutto, il principio secondo cui la nostra salvezza dipende esclusivamente dalla riduzione dei consumi e dalla quantità di verde che siamo in grado di reiniettare nelle città. Sebbene queste siano strategie indispensabili, anche se, probabilmente, insufficienti, ci si dovrebbe chiedere se l’architettura costruita non possa anche essere intrinsecamente ecologica. Questa domanda è necessaria per evitare che sia la decrescita felice e l’inclusione del verde negli insediamenti urbani (che pure non superano il 5% della superficie emersa), non alimentino forme di autoindulgenza, a scapito del radicalismo della nostra capacità creativa. La reificazione del principio secondo cui l’artificialità sia una condizione esterna (e perfino antagonista) rispetto all’ecologia, rischierebbe quindi, paradossalmente, di favorire l’accettazione del potenziale distruttivo, per l’umanità, dei prodotti della propria creatività. In che modo una architettura che risponda alle stesse logiche del paesaggio, della botanica o della biologia, può contribuire al miglioramento della nostra qualità della vita?

* Curatore del Padiglione Italia della Biennale Architettura

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