La Nuova Sardegna

«Se non ho mollato il cinema lo devo alla Maddalena e alla gente della Sardegna»

di Fabio Canessa
«Se non ho mollato il cinema lo devo alla Maddalena e alla gente della Sardegna»

Il regista ha lavorato con grandissimi attori, come Gian Maria Volonté, e con alcune star difficili come Kinski e Cassavetes: «Poi siamo diventati amici»

29 maggio 2021
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Ha diretto lungometraggi che hanno fatto la storia del cinema come “Sacco e Vanzetti” e “Giordano Bruno”, ma il film più importante nella vita di Giuliano Montaldo è un titolo sconosciuto e solitamente nemmeno indicato nella lista delle cose che ha girato: “L’isola dell’angelo”. Perché è grazie a questo lavoro che nel 1961 non molla il cinema, come aveva pensato di fare dopo l’amarezza per le critiche politiche al suo esordio “Tiro al piccione” (oggi rivalutato ma allora non capito perché incentrato su un ragazzo che si arruola nella Repubblica di Salò), e soprattutto incontra Vera Pescarolo, la sua dolce metà. Da lì in poi sempre al fianco del regista anche nella sua straordinaria avventura artistica. Un meraviglioso sodalizio raccontato da Montaldo nel libro “Un grande amore” (La Nave di Teseo, 192 pagine, 17 euro) appena pubblicato. «Stavo davvero per lasciare Roma e tornare nella mia Genova con l’idea anche di cambiare mestiere – racconta raggiunto telefonicamente – quando ricevetti una chiamata dal produttore Leo Pescarolo che mi voleva fare una proposta. Entrando nel suo ufficio mi trovai di fronte una splendida creatura, la sorella Vera che collaborava con lui. Fu un colpo di fulmine».

La proposta riguardava “L’isola dell’angelo”, girato alla Maddalena. Come ricorda quell’esperienza?

«Ricordo la collaborazione degli abitanti, molti parteciparono alle riprese. Un luogo meraviglioso dove sono poi tornato per il bellissimo festival “La valigia dell’attore” dedicato a Gian Maria Volonté e organizzato dalla figlia Giovanna che vive alla Maddalena».

Anche sua figlia, Elisabetta, è legata alla Sardegna.

«Certo, ha vissuto per un lungo periodo a Nuoro. E poi in Sardegna sono cresciuti i suoi figli, i miei cari nipoti Inti e Jana. Tutti e tre hanno trovato soddisfazioni nel mondo del cinema. Elisabetta come costumista ha vinto due David di Donatello, anche se oggi preferisce scrivere e dipingere. Inti collabora con i più grandi registi italiani e non solo. Jana è una truccatrice affermata a livello internazionale».

Una famiglia nel segno del cinema. Lei ha iniziato come attore, com’è avvenuto il passaggio dietro la macchina da presa?

«Ho scoperto il cinema con Carlo Lizzani che dopo avermi visto a teatro, a Genova, mi offrì un ruolo nel suo film d’esordio “Achtung! Banditi!”. Sul set lo guardavo con stupore, il mestiere del regista cinematografico mi sembrava così strano e affascinante. Al suo fianco e poi come assistente di altri maestri come Pontecorvo e Petri ho imparato qualcosa, fino a quando non ho debuttato con “Tiro al piccione”. Il film fu presentato a Venezia nel 1961, al pubblico piacque ma venne massacrato dalla critica. Un linciaggio politico».

La sua carriera prosegue con “Una bella grinta”, selezionato per la Berlinale, e subito dopo prende una piega internazionale quando è chiamato a dirigere “Ad ogni costo”.

«Sì, un film girato soprattutto in Brasile perché racconta di un furto in una società diamantifera a Rio de Janeiro. Come protagonisti la produzione propose, con mio grande entusiasmo, Edward G. Robinson e Janet Leigh».

Due grandi stelle americane. Nel cast anche il tedesco Klaus Kinski che ha sempre avuto la nomea di attore difficile da gestire. Come si comportò sul set?

«Mi avevano avvisato che era meglio non prenderlo perché imprevedibile, ma si trattava di una produzione in parte tedesca e avevamo pensato a lui per questo e perché mi serviva uno un po’ matto in scena. Il problema era che lui matto lo era davvero, anche fuori scena. Ogni tanto spariva e ricordo che un giorno ha rotto un dito al capo macchinista al quale aveva chiesto di giocare a flic foc. Comunque, a parte questo caso, in generale ho sempre lavorato con serenità anche con interpreti dalla personalità complessa».

John Cassavetes, protagonista del suo film successivo “Gli intoccabili”, era uno di questi?

«Beh, era anche un bravo regista e devo dire che la prima settimana mi ha rotto un po’ le scatole. Abbiamo litigato, ma poi siamo diventati amici. Il film andò anche a Cannes».

Dopo questi due film che si possono definire di genere, decide però di cambiare.

«Ricevetti delle proposte in America, ma volevo fare film che raccontassero la mia sofferenza per l’intolleranza».

Qualche anno dopo riesce finalmente a realizzare “Sacco e Vanzetti”, uno dei film simbolo del suo cinema d’impegno civile. Protagonista Gian Maria Volonté che dirige poi anche in “Giordano Bruno”. Com’è stato lavorare con un attore dal talento così enorme?

«Era incredibile, si trasformava nel personaggio per tutto il periodo del film. Per questo era capace anche di gesti folli. Ricordo sempre che la notte prima di girare la scena dell’esecuzione di Giordano Bruno piombò improvvisamente nella camera dove io e Vera stavamo dormendo e si mise a urlare: “Ma come fate a dormire? Domani mi bruciano vivo!”. Alla fine si calmò e si addormentò nel letto accanto a noi».

In entrambi i film le musiche sono firmate da Ennio Morricone.

«Avevamo un rapporto bellissimo, abbiamo collaborato in tante altre occasioni. Per esempio per “Marco Polo”, splendida colonna sonora per una serie che ha segnato la storia della televisione. Fu un’impresa durissima realizzare questo progetto. Dalle riprese al Lido, dove avevamo ricostruito Piazza San Marco, a quelle in Cina. Passando per il Golfo Persico, il Tibet e la Mongolia. Un’esperienza faticosa, ma indimenticabile».

Al suo fianco sempre Vera Pescarolo. È mai stata gelosa delle tante straordinarie e bellissime attrici che ha diretto?

«No, stringeva amicizia con loro più di me. In particolare con Ingrid Thulin, protagonista di “L’Agnese va a morire”, si creò un rapporto speciale».

E lei è mai stato geloso?

«Ho sempre creduto nel nostro grande amore».

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