La Nuova Sardegna

«Nei miei romanzi racconto i sogni, le grandi passioni ma anche le ingiustizie sociali»

di Fabio Canessa
«Nei miei romanzi racconto i sogni, le grandi passioni ma anche le ingiustizie sociali»

Sabato in cartellone la presentazione di “Salvare il fuoco”, il nuovo romanzo  dello screenwriter del regista premio Oscar Alejandro González Iñárritu

21 settembre 2021
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Ha scritto i primi bellissimi film di Alejandro Gonzales Inarritu: “Amores perros”, “21 grammi” e “Babel”. Vinto il premio per la miglior sceneggiatura al festival di Cannes con “Le tre sepolture” di Tommy Lee Jones. Prodotto “Ti guardo” di Lorenzo Vigas, Leone d’Oro a Venezia. Diretto l’apprezzato “The Burning Plain” con protagoniste Charlize Theron e Kim Basinger. Il messicano Guillermo Arriaga è indubbiamente un grande nome del cinema internazionale. Ma non solo, è anche un romanziere di successo. E con il suo nuovo libro intitolato “Salvare il fuoco” (Bompiani Editore, traduzione di Bruno Arpaia) è atteso ad Alghero, superospite del festival “Dall’altra parte del mare” che da giovedì a domenica dedica un focus alla letteratura spagnola e latinoamericana. Un romanzo imponente quello di Arriaga (848 pagine) che ha come personaggi principali una donna di nome Marina, appartenente alla buona società messicana, e un uomo, José Cuauhtémoc, in carcere per omicidio.

“Salvare il fuoco” è per certi aspetti la storia del Messico attuale con il governo federale corrotto, i cartelli in continua lotta tra loro, il divario tra ricchi e poveri. Com’è nata l’idea per questo libro?

«È una storia che avevo in testa da diversi anni. Ovviamente mentre la scrivevo sono successe tante cose intorno a me, parte del libro l’ho scritta al confine con gli Stati Uniti dove si combattevano i cartelli. E sono cresciuto in un quartiere della classe medio-bassa dove molte di queste differenze facevano parte della nostra quotidianità. Quindi tutte queste cose hanno influenzato il mio lavoro».

In questa opera non c’è un vero e proprio villain, non lo è nemmeno José Cuauhtémoc. Il cattivo dell’intera vicenda qui sembra lo stato di superiorità mentale dei più ricchi verso i più poveri. È così?

«No, non credo che il cattivo sia la superiorità intellettuale. Il cattivo in questo romanzo è la società molto ingiusta che è il Messico in questo momento».

Nel libro l’arte è vista come elemento salvifico dalla prigione sia fisica sia mentale che i protagonisti si creano. Ma cos’è per lei l’arte?

«L’arte è la possibilità di porre domande, la possibilità di aprire nuove strade al dialogo».

Tra “Il selvaggio”, il suo romanzo precedente, e “Salvare il fuoco” si nota un elemento comune: la vendetta. Come è cambiato questo tema tra le due opere?

«La vendetta è una delle emozioni più tossiche. Ti immerge in un labirinto di ossessioni inarrestabili e alla fine ne diventi schiavo. Ci sono infiniti modi per affrontare il dolore inflitto dagli altri».

Il fuoco è qui un elemento quasi di nascita. José, come un moderno Edipo, uccide il padre attraverso il fuoco per diventare uomo e reimpossessarsi di se stesso, ma il fuoco è anche la passione che scoppia tra lui e Marina e tra lui e la letteratura. Come ha sviluppato questa idea del fuoco e cosa rappresenta per lei?

«Non scrivo per intenzione intellettuale, scrivo da qualsiasi cosa mi venga in mente, senza ordine, senza piano. Quindi non ho scritto il romanzo con il tema del fuoco in testa, è semplicemente venuto in modo naturale e da un posto profondo nella mia mente».

Una delle cose più interessanti e toccanti sono gli inserti, tra un capitolo e l’altro, scritti dai detenuti della prigione, ognuno in grado di esprimere sensazioni. Com’è riuscito a trasformare in scrittura tutto questo ventaglio di emozioni?

«Penso che il mio lavoro di scrittore sia cercare di mettermi nei panni di personaggi diversi, provare a pensare e sentire come loro, entrare nella loro storia personale e nelle loro motivazioni. Quando avevo 12 anni, a scuola, il teatro era una materia obbligatoria. Non solo leggevamo i più grandi drammaturghi di sempre, li mettevano in scena e recitavamo. Credo che questa formazione, sin da bambino, mi aiuti nello sforzo di immedesimazione nei personaggi».

Lei utilizza dei registri di scrittura differenti: gli inserti appunto, la prima persona, la narrazione più onnisciente, fino all’epistola in un discorso immaginario del fratello di José con il padre defunto che sembra avere il ruolo che il coro aveva nella tragedia greca. Qual è il segreto per riuscire a gestire tutti questi canoni e qual è stato il processo di scrittura che ha portato alla nascita di questa struttura?

«Non pianifico mai, non faccio mai uno schema, non faccio ricerche, non intervisto le persone. Mi siedo e cerco, per intuito, di risolvere la storia. Non avevo idea della struttura del romanzo quando mi sono seduto per scriverlo, né chi fossero i personaggi. Avevo in mente solo una sottile trama: una donna ricca incontra un detenuto pericoloso. Il mio compito come scrittore è scoprire cosa c’è dentro la storia, quale struttura può essere la più appropriata, quali personaggi serviranno meglio al dramma».

Non solo romanziere, lei è noto anche e soprattutto come sceneggiatore. Quali sono le differenze nel suo approccio alla scrittura per immagini rispetto all’impegno su un romanzo?

«Per me si tratta sempre di letteratura e mi avvicino alla sceneggiatura allo stesso modo della scrittura di un romanzo. Ho sempre voluto dare ai miei film un carattere letterario e romanzesco».

Come regista si ricorda il suo debutto, nel 2008, con “The Burning Plain”. Perché da allora non ha diretto altri lungometraggi? Un caso, difficoltà produttive o scelta personale?

«Perché sono diventato dipendente dalla scrittura di romanzi. È davvero una dipendenza, ma presto tornerò sulla sedia del regista per un lungometraggio. Nel frattempo sto producendo un film che mia figlia Mariana e mio figlio Santiago dirigeranno e in questi anni ho comunque realizzato diversi cortometraggi, tra cui “No One Left Behind” che è stato selezionato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2019».

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