La Nuova Sardegna

L’INTERVISTA 

«Suono il punk contro una società che non sa capire»

«Suono il punk contro una società che non sa capire»

Irriverente e adrenalinico, tagliente come un rasoio, sarcastico, poetico e rock: Edoardo Bennato è inafferrabile, quindi indescrivibile; è uno che “imbraccia” la chitarra ormai da sempre e mette in...

17 ottobre 2021
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Irriverente e adrenalinico, tagliente come un rasoio, sarcastico, poetico e rock: Edoardo Bennato è inafferrabile, quindi indescrivibile; è uno che “imbraccia” la chitarra ormai da sempre e mette in crisi le certezze di chiunque. Esce in versione rimasterizzata “La Torre Di Babele”, l’album cult del ’76. Lo troviamo su tutte le piattaforme musicali e nei negozi di dischi. Il tornado Bennato semplicemente ha sparigliato - tra i Sessanta e i Settanta - la tranquilla scena musicale italiana digiuna di rock, rendendola punk, blues, classica, folk. L’ha sprovincializzata e definitivamente liberata, aprendola al mondo. A 45 anni dalla sua pubblicazione, la potenza del messaggio della “Torre Di Babele” non ha perso un grammo della sua forza. Bennato è un visionario da sempre e non si piega, non si accomoda. I suoi concerti, oggi come ieri, sono energia pura, sono soprattutto buone vibrazioni rock, sono insofferenza totale verso qualunque restrizione-costrizione. Tra decine di canzoni indimenticabili e interi album di altissimo livello, Bennato viaggia nel mondo e a lato del tempo; lo fa da sempre, perché da lì vede l’umanità e la racconta. Da lì, accetta oggi di farsi intervistare e si racconta.

Bennato, in tempi di granitiche certezze e relative fazioni, lei apre i suoi concerti con il brano “Abbi dubbi”. Perché?

«Proprio dai dubbi e dal confronto costante con gli altri nasce la propositività, mentre quelli che si trincerano dietro le loro certezze sono pericolosi, per sé e per gli altri. Al di là delle nostre idee e ideologie è importante comunicare con gli altri cittadini del mondo, perché questo siamo, più che cittadini sardi, napoletani, italiani, europei. Il nostro obiettivo futuro è quello di evitare la catastrofe».

Perché oggi una rimasterizzazione dell’album “La Torre di Babele” a cui si aggiungono 16 brani live?

«In questo album si complementarizzano le canzonette del ’76, con quelle nuovissime fatte in questi ultimi mesi. Parlo della torre di Babele che stiamo vivendo oggi, in cui la situazione si deteriora giorno per giorno, ora per ora. Nella copertina, che ho disegnato come tutte le copertine dei miei album, c’è il tentativo di esplicare il fatterello biblico: gli esseri umani volevano sfidare la Natura, volevano costruire una torre che arrivasse fino al cielo, nella loro ignorante presunzione. Ma la divinità li punì, quindi confuse tutte le lingue. Non si capivano più l’un l’altro e la Torre di Babele rimase incompiuta. È un concept album in cui tutte le canzonette e canzonacce fanno parte di un tema: la confusione nel nostro pianeta, ieri come oggi. Nel Medioevo con la Santa Inquisizione, nel ’76 quando ho fatto l’album, e adesso nell’ottobre del 2021».

Nel brano “Bravi ragazzi” del ’74 lei ha raccontato di un coprifuoco, incredibilmente sembra scritto oggi. Come è possibile?

«Perché questi sono i temi che continuo a evidenziare nei miei album… Il brano dice “E pensare che all’inizio sembrava quasi un gioco, ora non c’è più tempo per pensare. Tutti dentro, chiusi ad aspettare… Hanno dato severe istruzioni, di stare calmi, di stare buoni”. Tutto è collegato e bisogna entrare nell’ordine di idee che il nostro futuro e quello dei nostri figli non potrà in nessun modo prescindere dalla soluzione dei problemi del terzo mondo che scalpita, è sempre più afflitto e nell’impossibilità di sopravvivere».

Seguitissimo, lei fa concerti sold-out e pubblica album. Perché non la vediamo spesso in tv?

«Il mio compito nell’immaginario collettivo è quello di fare canzoni, salire su un palco e di farmi ascoltare. Non è che sia schivo o che sia una mia scelta, quella di non apparire. Ho imparato, fin dalla prima ora, che tutto passa attraverso le forche caudine dei media. A 18 anni mi sono trasferito a Milano alla facoltà di Architettura, volevo fare anche musica e le case discografiche erano tutte lì. Alla fine la Ricordi, dopo 9 anni di gavetta, pubblicò “Non farti cadere le braccia”. Un giorno il direttore della Ricordi mi disse “Bennato il tuo disco l’abbiamo messo sugli scaffali dei negozi, ma nessuno se lo va a cercare, perché nessuno lo sa. Il nostro contratto è sciolto, levati dai piedi”. Imparai così la legge di questo mestiere: è bello solo quello che viene promosso. Ero stato a Londra e mi ero costruito, osservando gli one-man band in metropolitana: un tamburello a pedale e quell’aggeggio che si mette al collo per la fisarmonica. Suonavo pezzi punk, come “Ma che bella città”, “Salviamo il salvabile”, “Arrivano i buoni”. Mi misi per strada in un posto strategico, a Roma davanti alla Rai, dove sapevo che passavano giornalisti e operatori dello spettacolo. Facevo questi pezzi punk. Passarono giornalisti di Ciao 2001, rivista che allora era la bibbia delle nuove generazioni. Il direttore mi iscrisse a un festival di tendenza a Civitanova Marche. In quel periodo la Rai non si collegava neanche più al Festival di Sanremo, ridotto a una recita parrocchiale: era il periodo ideale per fare canzonette provocatorie. Feci i miei pezzi punk pestando sul tamburello con armonica e kazoo. Quando scesi dal palco, ebbi la percezione di aver avuto la patente che mi era stata rifiutata dal rutilante mondo della canzonetta. Mi richiamò il direttore della Ricordi che mi disse “Facciamo un 45 giri con Ma che bella città e Salviamo il salvabile”. L’anno successivo feci “I buoni e i cattivi”, un concept album dove analizzavo questa superficiale classificazione dell’umanità».

Perché il punk?

«Il punk è un atteggiamento, un modo filosofico anche spettacolare di provocare una società, una comunità che si autodefinisce sensibile, acculturata e lucida. Invece è completamente schizofrenica. La società dell’ottobre del 2021 è più schizofrenica che mai».

Ci fa un esempio di schizofrenia del XXI secolo?

«In questo momento i buoni sono le forze dell’ordine e i cattivi sono i manifestanti. Al G8 di Genova, i buoni erano i manifestati e i fascisti erano della polizia. Il benessere e gli interessi della collettività passano in secondo piano rispetto agli interessi delle fazioni politiche».

Parla di fazioni, dove sta la politica?

«Prendiamo lo sport: arte nobile che ci invita a migliorare le nostra capacità fisiche e morali attraverso il confronto con gli altri e ci impone di stringere la mano all’avversario che ci ha superato. Il tifo è antitetico rispetto allo sport, lo dico da tifoso. In Italia c’è un equivoco di fondo: si presume che fare politica sia militare per una fazione e lottare spietatamente contro quella avversa. Ogni modo di collocarci all’interno della comunità a cui apparteniamo è politica: chi dice “non voglio sapere niente di politica” ha fatto una dichiarazione politica».

La politica è il nostro rapporto con gli altri. Impossibile uscire dall’equivoco?

«Noi umani siamo arrivati a formulare un codice che si chiama “Scienza delle costruzioni” che assume un parametro fondamentale: la legge di gravità. Codice che ha messo tutti d’accordo per quanto riguarda la costruzione di qualunque struttura sul pianeta. Abbiamo un codice comune per costruire, ma non per tutti gli altri problemi, siano etici, religiosi, razziali. La torre di Babele è l’emblema di questa incapacità degli umani di capire quello che sta succedendo e di utilizzare i fatti della Storia perché non si ripetano. Nella ballata “Pronti a salpare” si parla della necessità di cambiare mentalità e di renderci conto che il nostro benessere futuro non può prescindere dal miglioramento delle condizioni della famiglia umana imprigionata nel terzo mondo, dove ci sono megalopoli polveriere, i cui abitanti arrivano da noi sotto forma di esodi biblici. Le masse si spaventano e diventano facile preda di imbonitori e manipolatori di coscienza. Alla base della confusione c’è l’incapacità totale di capire quello che sta succedendo».

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