La Nuova Sardegna

Omaggio al genio di una grande scrittrice

di Giacomo Mameli
Omaggio al genio di una grande scrittrice

È stato Carlo Bo a riconoscerle per primo una valenza letteraria di assoluto rilievo. Ora è studiata nelle università Usa

29 ottobre 2021
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È stato Carlo Bo, rettore-mito dell’università di Urbino, nominato senatore a vita nel 1984 da Sandro Pertini, editorialista di prima fila del Corriere della Sera, a portare Grazia Deledda all’attenzione della distratta (e prevenuta) critica letteraria italiana. Lo ha fatto in anni in cui, nelle due università sarde, più di un docente si rifiutava di assegnare tesi di laurea sull’unica italiana insignita del Nobel. Nei primi anni Sessanta, Attilio Momigliano l’aveva inserita nel Pantheon della cultura mondiale. Nella sua “Storia della letteratura italiana” aveva scritto: «Nessuno, dopo il Manzoni, ha arricchito e approfondito come Deledda il nostro senso della vita». Negli anni Venti, confinato dai fascisti a Nuoro dove insegnava al liceo Asproni, faceva studiare Deledda. Ma quasi mai, professori di licei o di atenei sardi o italiani, citavano Momigliano, che aveva riconosciuto alla scrittrice sarda «una capacità simile a quella di Dostoevskj di ritrarre la potenza del peccato come una crisi che libera dal loro profondo carcere tutte le forze di un uomo».

La vera resurrezione di Grazia Deledda – anche per la statura del personaggio che la analizzava – si deve però a Carlo Bo. Parlando in Campidoglio giovedì 26 giugno 1986, a 50 anni dalla morte della scrittrice, col presidente della Repubblica Francesco Cossiga, Bo aveva scandito: «È stata Grazia Deledda la scrittrice più libera che il secolo abbia abbracciato». Ancora: «Non ha mai tradito il carattere dell’eterna storia dell’uomo fissata sul rapporto errore-castigo e sulla conclusione del dolore». Le aveva riconosciuto di aver portato nella letteratura «la visione critica dell’esistenza, tutto il contrario dello sfogo e della rivolta». Ma soprattutto aver raccontato una società che era sarda e ugualmente universale, «preferendo stare in mezzo ai contrasti e alle contraddizioni con la certezza che l’equilibrio della salvezza dipende dal giuoco libero del confronto e del paragone».

Oggi Deledda è sempre più studiata nel mondo. Fra tutte vanno segnalate le lezioni che, in Italianistica, all’università della California, tiene la professoressa Margherita Heyer Caput. Per lei Deledda è stata «la pioniera della intermedialità fra linguaggi» perché «ha saputo leggere e descrivere la Sardegna come categoria esistenziale che ha espresso la crisi dell’uomo moderno». Il romanzo “Cenere”, con l’interpretazione di Eleonora Duse, in pieno conflitto mondiale, è diventato un’opera cinematografica globale che ha fatto rimbalzare la Sardegna e l’Italia nella «grande confusione e nello sbandamento della guerra, con un’analisi metonimica di cui nessun altro è stato capace».

Due ricordi personali. Il 27 giugno 1998, per il bicentenario della nascita di Leopardi, chi scrive aveva accompagnato in auto Carlo Bo a Recanati per la sua lectio sull’autore de “L’infinito”. Voleva sapere «che cosa si muove in Sardegna». Tante domande, centrate in particolare su Gramsci, Deledda e Giuseppe Fiori. Voleva sapere se lei era stata «sdoganata dal silenzio», se le era stata tolta «la patina di eccessivo folclore». Poi se era studiato «il Gramsci umano». E se venivano letti “La società del malessere” e “Baroni in laguna” . Aveva un alto concetto su Fiori. Poi, a bruciapelo, prima di scendere dalla macchina: «Ma ora, a Cagliari e Sassari, danno tesi su “Canne al vento”, su “Elias Portòlu”, sul femminismo sempre più moderno della Deledda? Vengono proposte ai bambini le “Novelle”, alcune delle quali sono pezzi di alta letteratura?». Avevo risposto: «Qualcosa si sta muovendo, ma a fatica. Chi cita Deledda è ancora ritenuto un provincialotto».

Secondo ricordo. Ero in quarta elementare a Perdasdefogu, un paese da Medioevo resistente. Mio insegnante era Mario Carta, figlio di un allevatore e di Peppina s’attittadòra. Una mattina di novembre, in un’aula gelida, aveva dettato le prime righe della novella intitolata “Il cinghialetto”. Tra i banchi il riscaldamento era un braciere con poche brace che da una casa vicina portava ogni due ore zia Pìlima. Il maestro aveva spiegato: «L’ha scritta Grazia Deledda, nata a Nuoro nel 1871 e morta a Roma nel 1936, si era fermata alla quarta elementare, ha scritto molti libri e ha vinto il Premio Nobel, oggi è la sarda più famosa al mondo». E poi la dettatura: «Appena aperti gli occhi alla luce del giorno, il cinghialetto vide i tre più bei colori del mondo: il verde, il bianco, il rosso, sullo sfondo azzurro del cielo, del mare e dei monti lontani». Infine: «Studiate a memoria queste righe, domani vi interrogo tutti». Tutti avevamo studiato. Marcolino, il più bravo della classe, aveva detto: «Le ha imparate a memoria anche nonna Massimina». A Perdasdefogu, nella strada centrale, campeggia la scritta «Leggendo si vive». Quest’anno è stata aperta l’undicesima edizione del festival letterario SetteSere SettePiazze SetteLibri inaugurando – sotto la via Deledda attigua al Comune – la piazza “Angolo Canne al vento”, creazione artistica in ferri colorati di due bravi artigiani locali. Due anni fa era stata la volta di piazza “Il giorno del giudizio” in onore di Salvatore Satta, altro nuorese che attende di essere valorizzato. Avevamo iniziato con Gabriel Garcìa Màrquez perché la sua Macondo era ed è Nuoro e Lollove, Orune Mamoiada e Fonni, la nostra Perdasdefogu dove una ceramica ricorda piazza “Cent’anni di solitudine”.

La strada l’ha aperta lei: Grazia, femminista libera nell’Ottocento. Perché – ultima citazione di Bo – «nonostante i cataclismi che si sono verificati nel campo della letteratura la sua fama è intatta». Ed è un bel messaggio, all’ingresso di Nuoro, vedere su un murale il volto di Deledda ambasciatrice della città e della Sardegna. Lei dà il ben’ènnidu a tutti. Lei, diceva Bo, che «aveva un segreto: la visione di libertà, della donna libera». Nel discorso in Campidoglio, aveva concluso dicendo che Deledda era «l’immagine dell’Italia letteraria che lascia passare le voci dell’attuale e ha per missione segreta quella di interrogare la vita, di misurare fino a che punto il male convive e si confonde col bene».

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