La Nuova Sardegna

1975-1977. Gavino Ledda diventa un caso nazionale con "Padre padrone". E il film tratto dal libro trionfa a Cannes

di Salvatore Tola
Una scena del film "Padre padrone" dei fratelli Taviani
Una scena del film "Padre padrone" dei fratelli Taviani

Sulla Nuova la cronaca di un dibattito ad Alghero: gli intellettuali sardi si dividono. Dopo la Palma d'oro ai fratelli Taviani lo scrittore dichiarerà: «Gli stranieri ci capiscono di più»

15 novembre 2021
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Il primo incontro del pubblico isolano con Gavino Ledda e il suo romanzo – «Padre padrone» – si ebbe in una manifestazione organizzata alla fine di agosto del 1975, ad Alghero, dall’Azienda di Soggiorno e dalla libreria Lobrano; il chiostro della chiesa di San Francesco era affollato, si vede nella foto pubblicata sulla «Nuova» il 27 agosto, ed erano presenti alcuni importanti uomini di cultura. Il libro era uscito nella primavera e aveva attirato l’attenzione, anche perché aveva ottenuto il premio «Viareggio» Opera prima; e già in precedenza i giornali avevano dato notizia delle tappe del difficile e straordinario percorso biografico dell’autore, che ne era il tema: nato nel 1938 in un paese del Logudoro, era stato strappato alla scuola – all’inizio della prima elementare – dal padre, che aveva bisogno di lui nell’ovile; dove lo aveva poi tenuto segregato per anni, trattandolo duramente e impedendogli di affrancarsi da quella schiavitù del gregge e della terra. Soltanto a diciannove anni era riuscito a ottenere la licenza elementare; poi, durante il servizio militare, aveva concluso il ginnasio; e aveva poi continuato, spinto dall’ansia di emanciparsi e ribellandosi alle proibizioni del padre, fino ad arrivare alla laurea in lettere e all’insegnamento nell’università.

Una lotta contro l’ignoranza e l’isolamento, segnata da episodi di violenza, e naturalmente da sacrifici e da difficoltà, che doveva per forza colpire il lettore. L’argomento indusse Manlio Brigaglia, che moderava il dibattito, a portare il discorso verso la «problematica socio-culturale» che il libro richiamava più che sulla critica letteraria. Una scelta che non trovò d’accordo lo scrittore algherese Enrico Valsecchi; mentre secondo il docente Leonardo Sole era giusta: «Se uno si è salvato, si vuol vedere questo itinerario di salvezza»; e poi «un libro non è solo un libro. È un modo di vedere la realtà». Era d’altra parte il tempo della letteratura «impegnata», si chiedeva anche ai narratori di scavare tra i problemi della Sardegna e individuare la strada per portarli a soluzione. Così, rispondendo al richiamo di Brigaglia, Aldo Cesaraccio – che aveva lasciato da poco la direzione della «Nuova» – e il senatore Ignazio Pirastu si soffermarono sul problema della scuola, che doveva a loro parere svolgere un’azione più efficace nel confronto delle classi subalterne, e adeguarsi alla realtà locale fino a «parlare sardo». A Pirastu il libro non era parso però emblematico della condizione sarda, e su questo convenivano il sociologo Luca Pinna, il giornalista e scrittore Giuseppe Fiori e lo stesso Sole: anche i genitori delle classi più disagiate non impedivano più ai figli di frequentare le scuole, facevano notare, e la Sardegna non era chiusa più nell’ovile, isolata nella campagna, ma «attraversata dalla storia» e agitata da una «intensa alfabetizzazione politica».

Gavino Ledda reagì anche in modo brusco a queste ripetute critiche. Di fatto erano molti i lettori locali che non trovavano nel libro l’immagine della Sardegna che conoscevano; e si meravigliavano che lo scrittore fondasse la sua storia sulla condanna del mondo pastorale e sull’abbandono del sardo in un periodo in cui se ne tentava la rivalutazione. Al neo scrittore non restava che rifarsi ai segni di apprezzamento che gli venivano dal mondo esterno, dove la storia del suo riscatto, della conquista della parola e dell’ingresso nella comunità nazionale trovavano grande accoglienza. Già al momento dell’uscita del libro, in un dialogo pubblicato sul «Corriere della Sera» l’intervistatore e Ledda si erano trovati d’accordo sull’opportunità di tradurre integralmente «la cultura subalterna nella cultura nazionale, cioè egemone».

***

Alla metà di maggio del 1977 si sparse la notizia che il film «Padre padrone», tratto dai registi – i fratelli Taviani – dal romanzo omonimo di Gavino Ledda, si stava affermando al Festival di Cannes. Si moltiplicavano i segni di apprezzamento per la vicenda raccontata: quella dello stesso scrittore che, liberandosi della schiavitù imposta dal padre pastore, era riuscito ad accedere agli studi, sino alla laurea. Il corrispondente della «Nuova» azzardava un paragone con «La terra trema» di Luchino Visconti: se quello aveva reso «la realtà dei pescatori siciliani» il nuovo film portava sullo schermo, «in maniera ancora più efficace», la vita dei contadini sardi. Morando Morandini, inviato del quotidiano «Il Giorno», lo definiva «un film duro come un pugno chiuso, aspro eppure musicale come il dialetto sardo, feroce e dolcissimo… un urlo che rompe il silenzio… un discorso razionale, limpido». I consensi arrivavano anche dalla stampa francese, «France Soir» parlava di una triplice rivincita: della libertà sull’asservimento, della vita in comune sulla solitudine, della parola sul silenzio.

Poi, sul finire del mese, la conferma: il film aveva ottenuto la Palma d’oro e il Premio internazionale della critica. «La Nuova» portava la notizia in prima pagina, affiancata da un’intervista a Ledda: «Non me l’aspettavo», dichiarava, e spiegava che la considerava «la vittoria di tutto il mondo pastorale subalterno»; poi, ripensando evidentemente alle discussioni seguite alla pubblicazione del romanzo: «Gli stranieri hanno dimostrato di capire il nostro mondo più della stessa intellighenzia isolana». La conferma che l’accoglienza era in Sardegna meno favorevole venne da Giovanni Campus, il critico cinematografico della «Nuova», che dedicò al film l’intera terza pagina. Riconosceva che era apprezzabile per il tono lirico, la bellezza della fotografia, «la sapiente colonna sonora», la recitazione degli attori chiamati a interpretare il padre e il figlio. Ma eccepiva che la storia era arcaica, non corrispondeva alla «complessa realtà moderna dell’isola»: i Taviani non avevano saputo «storicizzare», difetto non perdonabile, «in quanto si tratta di problemi, oggi, di attualità scottante».

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