La Nuova Sardegna

2003. La strage dei bravi soldati italiani a Nassiriya

Umberto Aime, 13 novembre 2003
La prima pagina del 13 novembre 2003
La prima pagina del 13 novembre 2003

Iraq, dai progetti di pace all'inferno. Colpita anche la Brigata Sassari, un sardo tra le vittime. Il racconto in diretta alla Nuova del colonnello Gianfranco Scalas

15 novembre 2021
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CAGLIARI. Ore 11 italiane, Nassiriya, due ore e venti dopo la strage. «Morti, feriti, macerie, polvere: c'è il peggio, qui. È assurdo, spaventoso, pazzesco». Gianfranco Scalas parla, racconta. Piange, il colonnello di Assemini: «Ci sono i miei ragazzi, sotto le macerie». Il suo è un filo di voce, distorto dall'eco, dalle sirene, dall'inferno dell'«Animal's house», nome da caserma per le palazzine abbattute dai kamikaze. Le telefonate con Nassiriya saranno di quelle che scavano e lasciano il segno: indelebile nel sovrapporsi a un'altra chiacchierata. Cinque giorni fa, sulla stessa linea rossa, con un Gianfranco Scalas allora fiero nell'infilare, uno dopo l'altro, aiuti umanitari, bambini vaccinati, scuole da ricostruire e imam conosciuti. Versetti del Corano mischiati a idee e progetti: il giornale che vuol fare, assieme alla radio «Forza Paris», come l'altra accesa con successo in Kosovo: quella una missione perfetta, da promozione sul campo. Non c'era eco, non c'era morte, cinque giorni fa. Solo il colore di molte parole in cagliaritano stretto, imprigionate sul filo dell'internazionale, conquistata via Roma: «Commenti andara innia?... Seusu bravisceddusu... Si olinti beni, innoi».

Ore 11.30, Nassiriya.Ci volevano bene, in Iraq: soltanto una sassaiola addosso ai blindati, nient'altro da segnalare nelle prime cinque settimane di missione. Fino a ieri, fino alle 8.40 italiane di mercoledi 12 novembre 2003: da due ore ogni oggetto, qualunque cosa è mutata, stravolta, a Nassiriya. Anche la voce di Gianfranco Scalas, l'addetto stampa, il caporedattore - in un giornale - della Brigata Sassari e della forza italiana «Antica Babilonia», nella città che fu di Abramo ed è capitale del «Triangolo delle paludi». Li c'è il comando operativo del Centocinquantunesimo, la «White House»: a dieci chilometri, alle spalle dell'aeroporto: «Laggiù sono al sicuro, nelle tende. Abbiamo rinforzato la guardia ai check point - dice - Qui invece è un disastro. Devo andare, lasciami andare. Ci sono due dei miei, sotto». Silvio Olla, maresciallo di Sant'Antioco, e Massimo Ficuciello, Brescia, richiamato, impiegato in banca, figlio di generale, una settimana dal rientro a casa, truppa scelta dell'ufficio stampa del contingente. La voce cambia, non più Scalas, ma un'altra destinata all'anonimato: cognome e grado coperti dai boati. Altre bombe? Dal fronte negano e dicono: «Silvio era il primo collaboratore del colonnello. Massimo si occupava degli inviati». Maria Cuffaro del Tg3 li ricorderà cosi, nella prima diretta: «Mi hanno scortato fra la gente. Persone stupende, due veri professionisti».

Ore 15.15 italiane, Nassiriya.«Rientro dalla perlustrazione. Ho scavato con gli altri. Sotto le macerie è un macello. I morti sono quattordici: undici carabinieri, tre dell'Esercito. Ma sarà peggio. Lo so, sarà molto peggio, vedrete». Gianfranco Scalas non è cambiato: sempre un filo di voce. È carico anche di tensione: Roma preme, i ministri vogliono sapere, il generale comandante Bruno Stano è fra le palazzine sventrate. «L'attentato è stato ricostruito in ogni momento - dice il colonnello-giornalista -. Quello battuto dalle agenzie è giusto: il camion, i kamizaze, l'esplosione...». Senza particolari, non c'è tempo per rispondere. In sottofondo un sibilo che brucia le tempie e le domande: quanti erano i terroristi? il camioncino o anche un'auto? quanti feriti? quanti sardi? Gianfranco Scalas è già lontano, sul blindato destinazione buco nero, oltre lo steccato, fra le tre palazzine dell'ex Camera di commercio dell'era Saddam, ora bare nere e sventrate, prima grigie e anonime.

Ore 17.30, Nassirya. Gelo e buio sono dappertutto e non solo, al di là del telefono. «Dopo, non ho tempo, devo andare, mi chiamano dal buco». Neanche un ciao, per chi è rimasto con altre domande impiccate. Si finisce per essere catapultati, risucchiati nell'inferno. Ritirata e ringraziamenti, con un filo di voce, perché ormai la sindrome è senza confini: «Capiamo, scusi. Saluti il colonnello».

Ore 18, Roma. Un'altra telefonata, sul cellulare dell'inviata del Tg3, con il ritratto, a braccio, del maresciallo Silvio Olla. «Quando ho letto il suo nome fra i morti, m'è preso un colpo. A Nassiriya è stato il mio Gigante buono, scrivilo con la G maiuscola, lo merita. Degli iracheni sapeva tutto: gioie e dolori». Compreso un versetto del Corano mandato giù a memoria: Siamo fratelli, dobbiamo rispettarci tutti. Maresciallo in prima linea, dietro i carabinieri, davanti ai giornalisti, perché l'ufficio stampa in guerra non è posto per imboscati.

Ore 19.30, Nassiriya. I cadaveri, il pennacchio nero e le palazzine dell'ex impero Saddam sono la copertina di ogni telegiornale. «Anche voi vedete quello che noi abbiamo visto?», chiede il sottufficiale dal centralino. «Sono tutti fuori. Sono rimasto solo. Questo è il diretto del colonnello Scalas. Non lo sento da un'ora». Notizie? La risposta è burocratica ma giusta e insindacabile: «Il Comando di Cagliari v'invierà un elenco via fax». Di parola, dieci minuti e uno Sharp implacabile sputa fuori quanto c'è di più agghiacciante in guerra: i nomi delle vittime battute su carta intestata.

Ore 20 italiane, telefonata dalla «White house»,a dieci chilometri dalla voragine. È un soldato della Brigata a parlare: «Il colonnello m'ha detto di avere pazienza. È molto impegnato, a Nassiriya». C'è il tempo di scambiare quattro parole sulla bomba («Abbiamo sentito anche noi il botto, lo spostamento d'aria»), sulla sicurezza («C'è una sola strada d'accesso al campo. Per fortuna»), sulla salute («Tutto bene, grazie») e sull'immancabile tempo: «Trenta gradi all'ombra. Roba da deserto, dormiamo in tenda».

Ore 21.30 italiane, a Nassiriya incombe la mezzanotte.Uno squillo: Gianfranco Scalas è li, al suo posto: «Sono a pezzi, stanco, distrutto. Io sono vivo e loro, i miei ragazzi e gli altri ragazzi, morti». Piange, il colonnello.

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