La Nuova Sardegna

1962. Antonio Segni, il presidente agricoltore

di Aldo Cesaraccio, 8 maggio 1962
Antonio Segni nel 1963 insieme a John Kennedy in visita a Roma
Antonio Segni nel 1963 insieme a John Kennedy in visita a Roma

Il primo sassarese al Quirinale. «Continuerò a occuparmi delle mie piante. La riforma agraria l'ho studiata io, la feci vedere a De Gasperi. Ne parlò agli amici della Dc che la approvarono»

16 novembre 2021
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«Cosa vuole, Celestino ormai ha fatto casa a Roma con la moglie e con i figli, Giuseppe è a Genova e si occupa di pediatria, Paolo è a Sassari ma pensa di mettere a frutto la sua laurea in medicina; speravo in Mario, che è ancora studente all’Università, ma pare che anche lui voglia fare il professore. Della campagna, quindi, dovrò continuare a occuparmi io. Ma d’altra parte è giusto che sia così. Io per tutta la vita ho potuto studiare, insegnare e fare l’agricoltore. Ma ormai, in Italia, e qui in Sardegna specialmente, chi fa l’agricoltore deve fare soltanto l’agricoltore. Vi sono tali problemi tecnici, economici e sociali, oggi, per l’agricoltura italiana, che chi vi si dedica non può pensare ad altro». Queste parole mi venivano dette la mattina del lunedì di Pasqua dal presidente Segni nella sua campagna del Latte Dolce, dove ha in corso un esperimento di attecchimento di certi aranci (...)

Ero andato con lui in campagna assieme ad alcuni colleghi della radio e della televisione che dovevano registrare qualche cosa in preparazione a «un certo avvenimento» (era estremamente difficile parlargli chiaramente di Quirinale: se ne temeva qualche scatto di fastidioso riserbo), e mi era toccata un po’ la parte di stuzzicatore. Io, che anni or sono non avevo molto creduto a Segni ministro dell’Agricoltura (ed avevo per ciò le carte in regola di fronte alla prospettiva di quelle apologie obbligate che, so bene, Segni sa giudicare molto freddamente), mi sono arreso davanti a Segni agricoltore (...)

Gli chiesi: «Se il 2 maggio succede qualcosa, chi si occuperà di queste piante?». Segni mi rispose come sopra ho riferito, passando in rassegna i quattro figli, nessuno dei quali pare disposto a estirpare papaveri e piantare aranci come il padre. Poi si accigliò un pochino, e in un tono estremamente raro in lui, il tono fermo e quasi perentorio di chi ha già preso delle decisioni, aggiunse: «Continuerò a occuparmene io. Non ammetto di non poter continuare a occuparmene io» (...)

Unica allusione a «un certo avvenimento» del 2 maggio: con un sorriso mi disse di ringraziare a nome di donna Laura un certo corsivista di questo giornale che, raccogliendo l’espressione di una romagnola durante un referendum giornalistico sulla successione al Quirinale e secondo la quale Segni piaceva «come persona», aveva scherzosamente scritto: «Attenta, attenta, donna Laura!». Per il resto, tutta agricoltura. Il nuovo Presidente della Repubblica ha iniziato la sua carriera politica, sedici anni fa, non dalla sua professione giuridica, non dalla sua preparazione di studioso, e forse neanche dalla sua qualità di ricostruttore in Sardegna del partito cattolico, ma proprio dalla sua qualità di agricoltore. Era presidente dell’Unione provinciale degli agricoltori di Sassari (...) Quando De Gasperi ebbe bisogno di un sardo da comprendere nel suo secondo Governo. Era libero il posto di sottosegretario all’Agricoltura (...)

Il discorso sulla riforma agraria era inevitabile. Gli chiedemmo: «La riforma agraria la ha studiata Lei o la ha fatta preparare ad altri?». Ecco la risposta: «La ho studiata io. Dopo averla studiata, la feci vedere a De Gasperi, che la studiò a sua volta. Lo interessò. Ne parlò agli amici del partito che la approvarono» (...) La verità è che Segni vive intensamente i problemi della terra. È un agricoltore che sa il fatto suo. Può lasciare perdere il discorso intorno all’unità europea o alla NATO o al problema algerino (come fece quando tentai di stuzzicarlo su quegli argomenti), ma se gli si propone qualche problema tecnico legato alla terra diventa come un «tifoso» a una partita di calcio (Già, mi parlò anche della Torres, del Cagliari, del Pisa e di tante altre cose che io, naturalmente, non sapevo). (...)

«Ne vuol sapere una? Recentemente, durante un viaggio in Inghilterra, terminati gli incontri ufficiali volli visitare una grande tenuta-modello. Il proprietario mi guidava gentilmente attraverso le coltivazioni. Là, sa, puliscono il terreno con macchine speciali: magari potessimo farlo anche noi, qui in Sardegna. Quando vidi dei papaveri, mi venne spontaneo chinarmi per estirparli, dalla radice però. Il proprietario sorrise e disse qualche parola. Me la feci tradurre. Diceva: “Peccato che sia ministro degli Esteri; se no, due scellini al giorno non glie li leverebbe nessuno”. Questa però non la scriva», mi disse ridendo la mattina di Pasquetta. (...)

Con tutti questi precedenti, non mi pare che Segni rinuncerà davvero a seguire i suoi aranci del Latte Dolce, e continuerà cioè a stare qui, a Sassari, tutte le volte che potrà, per ben ricordare – come fece l’anno scorso, unico, in occasione delle celebrazioni del «61» – che la Sardegna ebbe, nel 1847, la primogenitura della cittadinanza italiana prima dell’unità, e che adesso è, finalmente!, un sardo il Primo Cittadino d’Italia, il simbolo dell’Unità nazionale. A meno che non gli venga in testa di mettere a posto le cose agricole della tenuta di San Rossore o di Caprarola, ove villeggiano i capi dello Stato. Ne sarebbe capacissimo, e mi sembra di sentirlo mormorare: «Quel Gronchi, come mai in sette anni non ha fatto estirpare tutti questi papaveri: si bevono tutta l’acqua della terra...».

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