La Nuova Sardegna

2002. L'ultimo pezzo di Mario De Murtas, amico geniale

Articolo pubblicato il primo maggio 2002
Mario De Murtas, il giornalista della Nuova Sardegna scomparso tragicamente il 16 maggio 2002
Mario De Murtas, il giornalista della Nuova Sardegna scomparso tragicamente il 16 maggio 2002

La Nuova Sardegna in lutto per la scomparsa del giornalista. Pochi giorni prima aveva intervistato Gino Paoli ed era come se parlasse di sé: «La mia capacità di incuriosirmi è rimasta uguale a quella di un bambino»

23 novembre 2021
4 MINUTI DI LETTURA





Il 16 maggio 2002, dopo un brevissimo ricovero in ospedale, muore a soli 48 anni Mario De Murtas, giornalista geniale, una delle firme più note della Nuova Sardegna, dove era vicecaposervizio della Cultura. Sulle circostanze del decesso sarà aperta un’inchiesta giudiziaria che si concluderà nel 2013 con l’assoluzione in appello di un medico. Ripubblichiamo l’ultimo articolo di Mario: un’intervista a Gino Paoli.

SASSARI. Sono passati più di quarant'anni dalla prima incisione su disco, e cosa è cambiato, per Gino Paoli? «Tutto è cambiato, io sono cambiato, la testa cambia perché ti rendi conto di quello che puoi fare, quello che è vero e quelli che sono velleitarismi, è chiaro. Quello che non è cambiato, per me, sono due cose: la mia capacità di stupirmi, incuriosirmi, incazzarmi, rimasta uguale a quella di un bambino di dieci anni. L'altra è la mia voglia di fare qualcosa per gli altri, invece di lavorare solo per me stesso. E poi ce n'è anche una terza: non sono mai riuscito e non riuscirò mai a fare qualcosa che non sentissi. Non conosco l'arte del compromesso, dell'accontentare, dire una cosa per l'altra, di sorridere quando mi va di mandare a fare in culo, questo non sono mai riuscito a farlo e continuo a non farlo».

– Parlamentare con il Pci... «Indipendente di sinistra. Io non ho mai preso neanche la tessera del tram. Non sono per le tessere di nessun tipo, non voglio entrare in nessuna banda. Una banda ha anche la pecora nera, e io non voglio avere niente a che fare con i disonesti» (...)

– Questo per la politica, e la canzone? «La canzone, cosa?» La canzone, quella ligure, che rimbalza da Italia in Francia. «La canzone: per chi ha qualcosa a che fare con i catalani come i genovesi o i monegaschi come Léo Ferré, o i francesi, è normale perché c'è una cultura comune. Io mi sento molto più parente con un francese o con uno di Barcellona che con uno di Milano. È chiaro che ci saranno anche delle esperienze comuni che producono anche una letteratura comune». (...)

[[atex:gelocal:la-nuova-sardegna:tempo-libero:1.40523498:gele.Finegil.StandardArticle2014v1:https://www.lanuovasardegna.it/tempo-libero/2021/07/21/news/in-redazione-tra-allegria-e-serieta-con-un-oscar-speciale-1.40523498]]

– Cosa resta, della rabbia, quando la testa si calma? «La rabbia non si calma, se sei vivo. Puoi essere morto anche a vent'anni. Quando ti rassegni sei morto, io non mi rassegnerò mai. E se mi dovessi rassegnare vorrei avere ancora la capacità di tirarmi un colpo».

– Per la seconda volta? «Mah... Io spero di non essere mai uno che si rassegna, ma se mi rassegnassi non avrei più ragione di vivere».

– Siete stati una scuola... «No, siamo stati quattro amici che per caso si sono ritrovati a fare lo stesso mestiere partendo da posizioni completamente diverse: io facevo il pittore da anni, otto o dieci, Luigi aveva un'azienda di vini e studiava da fisico, Lauzi era già andato via da Genova e si era laureato in scienze politiche o in economia, non so. Nessuno di noi aveva intenzione di fare questo mestiere, e per caso ci siamo ritrovati, per caso e per un signore che si chiamava Reverberi e faceva il direttore artistico alla Ricordi, e si sentiva solo a Milano e voleva far venire gli amici. Poi abbiamo avuto quel minimo di successo che ti induce a continuare. Io però pensavo che sarebbe stata una cosa di un anno, tanto è vero che io ho cominciato a cantare nel '59 o '60 e ho lasciato il mio mestiere di grafico, con contratto e stipendio mensile, solo nel '62. Non mi fidavo».

– Forse una scuola no... «Ma prima di tutto, ognuno di noi, a parte Bruno forse, odiava l'idea di scuola, di uno che dicesse le cose e gli altri che ascoltavano. Era cosa proprio contro la nostra `dolce anarchia’. Noi siamo stati tutti più o meno anarchici, poi siamo finiti comunisti come tappa. Però siamo nati tutti anarchici, come tutti quelli che sonon usciti dal dopoguerra, almeno credo. E quindi di scuola non se ne parlava neanche, non poteva esserci qualcuno che insegnasse e qualcuno che imparasse. Eravamo talmente amici che quando uno faceva una canzone ci si metteva in due o tre».

La strage

Famiglia sarda sterminata in Germania, sgomento nell'isola: «Le loro radici sono qui, tornavano spesso»

di Giancarlo Bulla
Le nostre iniziative