La Nuova Sardegna

Luca Bigazzi: «I film e la luce, il mio lavoro con attori e registi»

di Fabio Canessa
Luca Bigazzi: «I film e la luce, il mio lavoro con attori e registi»

Il direttore della fotografia premio Oscar, a Cagliari per il Babel Festival, parla del mestiere e dei set nell’isola

07 dicembre 2021
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Sette David di Donatello, sette Nastri d’argenti e tanti altri premi vinti personalmente. Senza dimenticare l’Oscar come miglior film straniero per “La grande bellezza” che porta anche la sua firma.

«Ho avuto la fortuna di lavorare con bravi registi» minimizza Luca Bigazzi, il direttore della fotografia più premiato del cinema italiano. Oltre cento lavori alle spalle in quello che rappresenta un ruolo centrale nella realizzazione di un film: il responsabile delle inquadrature e dell’illuminazione, il compositore visivo che trasforma in immagini le idee dell’autore-regista. Venerdì Bigazzi sarà ospite a Cagliari del Babel Film Festival per una masterclass intitolata “Le scelte visive e di fotografia nel progetto di un film”.

Qual è la prima cosa che dice in questi incontri formativi, ai giovani che vorrebbero lavorare nel cinema?

«Che i tempi sono cambiati rispetto a quello che di solito viene loro insegnato. Nel senso che le conoscenze tecniche legate all’utilizzo della pellicola sono oggi inutili e direi anche controproducenti. Le macchine da presa digitali che usiamo adesso hanno bisogno di un approccio completamente diverso in termini di luminosità, di qualità e quantità della luce, e quindi quella cultura libresca, teorica, è sostanzialmente superata. Ma questo al posto di creare preoccupazione e stupore dovrebbe essere per loro stimolo per inventare nuove strade, nuove forme di utilizzo della luce e dell’immagine adeguate ai mezzi di rappresentazione che abbiamo a disposizione».

Nessuna nostalgia quindi della pellicola?

«Per niente. Penso che bisogna adeguarsi ai tempi, non essere romantici. Il principio “si stava meglio quando si stava peggio” lo trovo reazionario, fascista. La qualità dell’immagine oggi è molto più interessante e dico ai giovani di avere fiducia e coraggio, anche se sono l’elemento debole della nostra società, per la precarietà, l’idea dello stage gratuito e tutte queste che sono passate come una logica negli ultimi anni».

Il suo straordinario percorso può essere senz’altro d’ispirazione. Partiamo dal film più recente anche per ragioni territoriali: “Ariaferma”. Come si è trovato a lavorare in Sardegna?

«Sono state settimane bellissime. Adoro la Sardegna, trovo che sia un’isola meravigliosa per le qualità naturali e anche umane. Mi trovo davvero molto bene con i sardi».

Le riprese sono state quasi tutte effettuate nell’ex carcere di San Sebastiano. Che esperienza è stata girare in un luogo così particolare?

«Tutti i luoghi mantengono la presenza del dolore o della felicità che in essi sono stati vissuti. Sentivamo che là dentro c’era stata una sofferenza terribile e se da un lato questo è stato umanamente faticoso, dall’altra ha aggiunto qualcosa al film. Credo la visione riesca a trasmettere l’inumanità che è consona al carcere».

Protagonisti sono grandi nomi: Toni Servillo e Silvio Orlando, ma nel cast ci sono anche interpreti non professionisti o con poca esperienza. Che rapporto ha con gli attori come direttore della fotografia?

«Gli attori, affermati o meno, sono gli elementi più fragili, esposti e in difficoltà all’interno della lavorazione di un film. Noi direttori della fotografia, anche grazie alla semplicità del digitale al posto della pellicola, dobbiamo cercare di essere veloci perché il tempo sul set va dedicato soprattutto agli interpreti. La sostanza di un film è data dalla recitazione, non dalla forma, dalle inquadrature, dai vezzi estetici. Gli attori quindi vanno difesi e dobbiamo regalare loro più tempo possibile, anche per ripetere le scene».

In Sardegna aveva già lavorato con Paolo Sorrentino ...

«Sì, grandi parti di “Loro” sono state girate in Costa Smeralda. Una zona della Sardegna certamente bella, ma che amo meno. Preferisco Sassari e la campagna circostante che ho conosciuto durante le riprese di “Ariaferma” durate circa due mesi».

Con Leonardo Di Costanzo aveva già collaborato, con Sorrentino è successo più volte, così come con altri registi come Silvio Soldini o Carlo Mazzacurati. I sodalizi artistici rendono più facile il suo lavoro?

«Si vivono settimane intense sul set, fianco a fianco. Si crea un rapporto di conoscenza, di amicizia, che certamente aiuta. Poi è giusto che la collaborazione si possa anche interrompere, è bello cambiare a un certo punto».

Quando lavora con un nuovo regista qual è invece il primo approccio?

«Ogni volta è diverso. Tendo comunque a dire subito che mi permetterò di suggerire delle soluzioni, ma se vedrò queste scelte accettate acriticamente smetterò di suggerire. Perché i film sono dei registi, non dei direttori della fotografia. La presenza di chi fa il mio mestiere non dev’essere soverchiante».

Cerca quindi di adattarsi lei al regista?

«Certamente, mi metto al servizio. Per esempio quando ho lavorato con Ciprì e Maresco (per “Lo zio di Brooklyn” e “Totò che visse due volte”) ho cercato di restituire in pellicola, per il cinema, l’estetica che avevano già brillantemente collaudato con i loro video per la televisione».

I migliori registi italiani, ma non solo, anche la collaborazione con il grande iraniano Abbas Kiarostami per “Copia conforme”. Come ricorda quell’esperienza?

«Uno dei momenti più indimenticabili della mia vita. Abbas era un grandissimo regista e una persona meravigliosa. E credo che abbiamo fatto un film importante, forse allora non capito. Con gli anni, rivedendolo, mi sembra ancora più bello».

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