Naitza: «Liz, Richard e Alghero vi racconto un film da rivalutare»
Alla Festa del cinema di Roma il documentario su “La scogliera dei desideri” 1967: la troupe americana, mance sontuose, le due star, tanti soldi e il flop
Estate del 1967. Ad Alghero, in particolare nella zona di Capo Caccia scelta per le riprese, arriva la troupe anglo-americana di una grande produzione. Dietro la macchina da presa, a partire da un testo del famoso drammaturgo Tennessee Williams, c’è un grande regista come Joseph Losey. Come protagonisti ci sono Richard Burton e Liz Taylor: la coppia d’oro del cinema e del jet set internazionale. Gli ingredienti per un successo sembrano esserci tutti. Il “Boom!”, per giocare con il titolo originale del film, è però al contrario. Rappresenta solo il rumore di un tonfo clamoroso. “La scogliera dei desideri”, com’è conosciuto in italiano, è infatti un flop. Perché? Da questa domanda è partito Sergio Naitza per il suo nuovo documentario “L’estate di Joe, Liz e Richard” che sarà presentato domani in anteprima alla Festa del cinema di Roma.
Naitza, quando ha cominciato a interessarsi al film di Losey con l’idea di raccontarlo attraverso un documentario?
«Fa parte di un progetto che avevo sempre in mente, quello di raccontare le grandi produzioni che dagli Cinquanta ai Settanta hanno portato il cinema in Sardegna. Quando in pratica non c’erano ancora registi isolani. Ho raccontato prima “Proibito” di Monicelli, poi “Padre padrone” dei Taviani. E “La scogliera dei desideri” mi interessava molto, anche perché è stato il più grande impegno produttivo hollywoodiano in Sardegna».
Ricorda la prima volta che lo ha visto?
«Molti anni fa, in televisione. Ricordo che mi aveva colpito la magnificenza di una messinscena dove si notava che non si era badato a spese. Una villa costruita a picco sul mare, e poi distrutta a fine riprese, il duetto attoriale Taylor e Burton, il testo di Williams molto declamatorio, decadente. Un film il cui percorso è stato sicuramente sfortunato. Esce in America nel maggio del 1968, un momento in cui il mondo sta cambiando. Viene massacrato dalla critica e immediatamente rimosso, dimenticato».
Con il tempo è stato rivalutato. Lei è d’accordo con questa visione positiva del film?
«Certo non è il film migliore di Losey, ma è ricchissimo visivamente e rappresenta una lezione di come si lavora su un testo teatrale. E poi c’è una meravigliosa performance di Liz Taylor. Un’interpretazione senza freni e con mille sfumature, dove passa da volgare a suadente, da gentile a decadente. E anche se all’epoca è stato un fallimento trovo sia importante per capire meglio la poetica di un grande regista come Losey che, va ricordato, è stato profondamente politico. La storia di questa ricca vedova di sei mariti chiusa in una casa-fortezza sul mare, con una guardia del corpo fascista, e di un angelo sterminatore, che sarebbe poi un proletario, si può vedere come la metafora di una borghesia al tramonto. Ricordando che fu girato alla vigilia del ’68. Nella sua rivalutazione è stato importante l’impegno del regista americano John Waters che, insieme al critico francese Michel Ciment, è l’unico intervistato a non avere avuto esperienza diretta sul set del film. Le altre testimonianze che ho raccolto sono tutte di persone che hanno vissuto le riprese a Capo Caccia».
Tra queste ci sono anche alcuni algheresi. Quanto è presente in città il ricordo legato a quei mesi in cui il territorio divenne set di una grande produzione internazionale?
«Sicuramente il film è scolpito nella memoria collettiva di Alghero. Con tanto di leggende. Il set era blindato quindi anche sui giornali sardi, da una o due informazioni di seconda mano raccattate dai corrispondenti, si ricamavano racconti improbabili come quelli riguardanti Richard Burton che sfida algheresi a bere birra in qualche bettola. Io ho cercato di evitare quella che è diventata fantasia popolare. Mi interessava sottolineare di più il rapporto tra l’alto e il basso. Accanto ai vip c’erano diversi algheresi arruolati per varie mansioni e questo comporta un piccolo shock culturale e sociale. C’è per esempio l’operaio che racconta come con le mance è riuscito a comprarsi una Fiat 500. Piccoli dettagli che danno comunque il sapore di questo incontro reale con il cinema. Del legame tra l’aspetto internazionale e quello locale».