Maddalena Crippa: «Che errore attualizzare i testi teatrali, vanno messi al servizio dell’autore»
L'attrice al teatro Massimo di Cagliari con “Il compleanno” di Harold Pinter
A Cagliari in scena la grande prosa con un testo di Harold Pinter, la regia di Peter Stein e l’interpretazione di Maddalena Crippa. Da domani al 27 il Massimo ospiterà “Il compleanno”, capolavoro firmato dal drammaturgo premio Nobel, messo in scena da uno dei più grandi registi del teatro europeo. E con la signora del teatro italiano.
Le piace questa definizione?
«Adesso che ho una carta età, perché no? Ho iniziato nel 1975, non può che farmi piacere».
È vero che sul palco è sempre una emozione di versa?
«Per forza, perché siamo senza rete. Non abbiamo più nemmeno i suggeritori. Più che una emozione ogni volta è una paura. E più vai avanti e più cresce. Questo mestiere è qualcosa di sacro, di imponderabile. È uno degli ultimi luoghi in cui gli esseri umani possono sviluppare pensieri insieme agli altri senza distrazioni. È rigenerante».
“Il compleanno” di Harold Pinter fu messo in scena la prima volta il 28 aprile 1958: quanta attualità c’è nel testo?
«Mi fa sempre sorridere quando mi viene posta questa domanda. Shakespeare si rivolgeva ai suoi contemporanei parlando dei romani. Proprio con questo si dimostra che questo spettacolo è al servizio dell’autore - una grande della nostra letteratura novecentesca e teatrale - messo in scena da un grande del teatro quale Peter Stein e da una compagnia di altissimo livello che fa brillare tutte le sfumature. Certo, noi manteniamo l’azione nel 1957, l’impianto è lo stesso ma Pinter aveva visto allora cose che per noi oggi sono tangibili e forti. Vale molto di più affrontare un caposaldo della nostra letteratura teatrale e servire veramente il testo, piuttosto che attualizzarlo. Altrimenti si riduce la sua portata».
L’opera di Pinter, come altre dello stesso premio Nobel, fa parte delle “commedie della minaccia”. Cosa la colpisce dei testi pinteriani?
«Pinter lascia tutto aperto, non spiega mai. Stanley è un giovane ribelle dal passato oscuro, che si isola, ma poi viene riacciuffato dal potere. Il mio personaggio, Meg, è una donna un po’ tonta, sta dentro un suo mondo, mentre il marito si rende conto di ciò che sta accadendo a Stanley, ma preferisce chiudere gli occhi. Nei testi di Pinter c’è sempre questa “minaccia”, ma c’è anche ironia. Pinter non è un autore consolatorio né catartico. Si ride tanto in questa messa in scena di Stein».
La sua formazione al Piccolo con Strehler, poi Ronconi, Stein: ci sono similitudini tra questi grandi maestri?
«Vengono tutti da un momento storico straordinario per il teatro. Sono gli artefici della grande riforma, del teatro al servizio del testo. Io ho avuto la fortuna di iniziare con Strehler, un impatto immediato di serietà e profondità. Un’indicazione di una strada che ho continuato a ricercare nella mia vita teatrale. E guarda caso ho lavorato con tutti i più grandi, fino ad arrivare a Stein, che è diventato anche il mio compagno di vita. Stein è un conoscitore delle lingue, un grande della cultura europea».
Esordì al cinema nei “Tre fratelli” di Francesco Rosi, di cui il 15 novembre cadeva il centenario della nascita. Che esperienza fu?
«Un’occasione unica che non si è più ripetuta. E di questo me ne dispiaccio. È l’unica volta che ho sentito di avere la possibilità di fare cinema allo stesso livello di come faccio teatro in maniera seria. Ma purtroppo non ci sono state altre occasioni, il destino ha voluto così. Ma con Rosi ho goduto davvero. Avevo una sola scena con Michele Placido, ma un piano sequenza di 8 minuti. Ricordo ancora che provammo come fossero prove teatrali».