La Nuova Sardegna

L'intervista

Bobby Solo: «La mia abbuffata a Nuoro di porcetto e formaggio con i vermi. No ai reality: io canto non sono un vip»

di Alessandro Pirina
Bobby Solo: «La mia abbuffata a Nuoro di porcetto e formaggio con i vermi. No ai reality: io canto non sono un vip»

Il re del rock’n roll italiano a Cagliari per il premio Alziator alla carriera: «La mia Sardegna tra concerti al mulino e ferie a Coda Cavallo»

02 dicembre 2022
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Cantante e chitarrista, senza volere essere altro. Così va da quasi sessant’anni, e nessuna intenzione di cambiare pelle. Una vita intera dedicata alla musica, quella di Bobby Solo, che domani a Cagliari riceverà il premio Alziator alla carriera. Appuntamento al Teatro Massimo alle 17, dove l’artista si esibirà anche in concerto: in platea tutte le coppie di Cagliari che nel 2022 festeggiano le nozze d’oro.

Bobby, premio alla carriera qua in Sardegna. Il suo primo concerto nell’isola?

«Se arrivo al 2023 saranno sessant’anni di carriera. E dunque non so rispondere alla domanda, ma ricordo un tour del 1975: 40 concerti in 40 paesini dell’isola. Una volta mi esibii in un mulino, mi cambiai in mezzo alla farina, con i piedi tutti bianchi, sembravo pronto per friggere. Con me c’erano musicisti eccelsi allora ragazzini, come Massimo Fumanti e Rita Marcotulli, che aveva solo 16 anni. Era come una nipotina: suonava il piano, le dicevo di fare accordi più rock, ma lei era già più orientata sul jazz».

C’è anche altra Sardegna nella sua vita?

«Ma certo, l’isola è legata al fidanzamento con mia moglie Tracy. Ci siamo conosciuti in aereo e per fare colpo la portai in Sardegna. Non era un periodo facile per me, era il 1995, e grazie a Red Ronnie ottenni uno sconto per 15 giorni in un residence di Coda Cavallo. Un giorno eravamo in un market e incontrai dei fan di Nuoro. Mi invitarono a casa loro, presi la mia Uno turbo diesel e andai a Nuoro. Mi offrirono di tutto: maialino, formaggio con i vermi, 7 o 8 litri di vernaccia, per chiudere filu ’e ferru. Tutte cose che non mi posso più permettere per il colesterolo».

Quando entra il rock’n roll nella sua vita?

«Fu grazie a un amore platonico per una ragazzina Betsy McGovern, coda di cavallo e calzettoni bianchi, figlia di un giornalista dell’Herald Tribune. Mi parlava di Elvis Presley, io conoscevo Mina, Celentano, Tony Dallara ma lui non sapevo neanche chi fosse. Allora chiesi notizie a mia sorellastra, che si era sposata in Minnesota. Lei mi mandò tre 45 giri e due lp. Vidi il ciuffo e decisi di farmelo crescere anche io. Ma Betsy mi disse: “hai il ciuffetto, ma non canti”. Allora presi una chitarretta e iniziai a strimpellare, cantavo sopra la voce di Elvis, anche per 4 ore al giorno».

Ha mai incontrato Elvis?

«L’unica è stata la mia meravigliosa amica Rita Pavone. Ma Elvis è nel mio sangue, nelle mie cellule, come un parente».

Suo padre era un colonnello della Aeronautica: come prese la sua scelta di fare il cantante?

«Non voleva assolutamente che cantassi. Era un colonnello severo del 1906. Amava solo l’opera. Odiava il rock: diceva saranno anche miliardari ma solo degli straccioni. Tanto che chiamò la Ricordi e disse che, essendo minorenne, non potevo usare il nome Satti. Fu allora che il manager telefonò alla segretaria e le disse: “lo chiamiamo Bobby”. E lei: “Bobby e poi?”. Lui: “solo Bobby”. Lei non capì e da allora sono Bobby Solo».

Sanremo ’64, “Una lacrima sul viso” e fu l’apoteosi.

«Io ero un ragazzino troppo giovane, timido, insicuro. Ricordo che durante le prove era pieno di giornalisti sotto il palco del Casino. Tutti mi guardavano e non uscì più la voce. Fui costretto al playback. Per anni ho vissuto con terrore il palco, dicevano che ero superbo e presuntuoso. In realtà ero spaventatissimo».

Il playback non fu dunque una trovata pubblicitaria, come si è pensato per decenni?

«Macché, ma non era neanche laringite. Era “fifite”. C’è chi quando ha paura deve andare in bagno, io perdevo la voce».

Erano gli anni delle sfide di Sanremo, Cantagiro, Festivalbar: chi erano i suoi rivali?

«Mai avuti, perché ho sempre temuto che il troppo successo portasse troppa responsabilità. Tutti dicevano che ero rivale del mio amico Little Tony ma non era vero. Eravamo amici e condividevamo il sogno americano. Erano rivali i nostri manager, ma da parte sua ho ricevuto solo amicizia e generosità. Nel 1991 era un periodo duro, avevo appena divorziato, ero solo con mia madre e lui mi invitò al cenone di Natale a casa sua. Sotto l’albero mi fece trovare una chitarra Gibson da 6 milioni di lire».

Dodici volte a Sanremo, due vittorie: c’è spazio per la partecipazione numero 13?

«Ovviamente se mi chiamano volentieri. Dal 2003 ogni anno presento un pezzo e non lo prendono mai. Per me il festival è come il Gratta e vinci: ogni settimana gioco 10 euro, se non vinco pazienza. Anche quest’anno ho presentato un pezzo bello che si chiama “Bambino”, ispirato ai Black Keys. Ma se non mi prendono non ne faccio malattia».

Zanicchi, Berti: cosa ne pensa della nuova vita televisiva di molti suoi colleghi dell’epoca?

«Al mio agente televisivo, Nicodemo Scilanga, ho detto che non farò mai scandali, gossip. Io non sono un personaggio, ma voglio essere un cantante e un chitarrista. In tv voglio portare la mia musica americana rock, jazz, country, oltre alle mie canzoni più famose. Non voglio partecipare ai reality, non ho opinioni da dare. I talent, poi, mi fanno un po’ ridere. Il vero giudice è il pubblico, non i giurati con il pollice alzato. Sono una cosa televisiva, una filiera per legare un cantante 20enne a un manager. Ai talent non credo. Anche a Sanremo mica vende di più chi vince. Anzi, spesso chi arriva ultimo come Vasco o De Piscopo».

Spesso i rapper non sono capiti dalle generazioni più avanti con gli anni: rivede in loro il Bobby Solo degli inizi?

«Sono un po’ come Bartali che criticava tutto. Ma conoscendo bene l’America posso dire che il rap è una cosa che si basa sulle consonanti corte della lingua inglese. L’italiano è fatto da parole sdrucciole e tutto diventa una filastrocca. Uno magari si accontenta, ma per me non funziona. L’italiano è buono per cantare l’opera o “Perdere l’amore” (e la canta, ndr)».

In una carriera ricca di soddisfazioni ci sono rimpianti?

«Come faccio? Ho il pubblico che mi vuole bene dal 1964. Ma ora mi piacerebbe fare un disco di canzoni gospel di Elvis - l’album è “His hand in mine” - tradotte in italiano. Io sono molto credente, e lo è anche mia moglie: sarebbe un modo per avvicinare i giovani alla fede».

Ma in tanti anni ha mai pensato di rinunciare al suo inconfondibile ciuffo?

«Non potrei mai, fa parte della mia immagine. Anche se ora ha un po’ di fili bianchi ed è anche un po’ stempiato».
 

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