La Nuova Sardegna

L'intervista

«Proietti e Vitti sono stati i miei maestri. Ai giovani attori dico: dovete fare squadra»

di Alessandro Pirina
«Proietti e Vitti sono stati i miei maestri. Ai giovani attori dico: dovete fare squadra»

Pino Quartullo si racconta tra cinema e teatro

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Attore, regista, sceneggiatore, scrittore. Pino Quartullo è un artista a tutto tondo del cinema e del teatro. Merito anche di una carriera nata all’ombra dei più grandi, maestri d’arte e di vita, che ha avuto la fortuna di affiancare fin dagli inizi. Quartullo è sbarcato in Sardegna con la commedia “Buoni da morire”, che sotto le insegne del Cedac, ha fatto tappa a Olbia, Alghero, Tempio e Macomer. Al suo fianco Debora Caprioglio e Gianluca Ramazzotti.

Quartullo, la commedia è lo specchio dell’Italia di oggi?
«Di quell’Italia un po’ radical chic che pensa di mettersi a posto la coscienza portando panettoni ai clochard, ma poi il resto dell’anno? Emilio e Barbara fanno ridere perché vivono l’esperienza della beneficenza come dovessero andare alle Seychelles. Cosa che fa addirittura rinascere il loro rapporto logorato. C’è molta ipocrisia in questo atteggiamento. Loro sono attaccati ai soldi, alla vita agiata. E questo viene in evidenza quando l’indomani mattina arrivo io, loro amico finito male. E loro provano schifo, disgusto».

Nella vita quanti Emilio e Barbara ha incontrato?
«Siamo tutti un po’ come loro. Nella vita non siamo tutti così coerenti, dovremmo rinunciare a tante cose pensando a chi non ne ha, ma non siamo capaci di rinunciare a niente. Magari facciamo donazioni per i bambini in Africa, ma sono solo gesti, certo importanti, spesso in contraddizione con i nostri comportamenti quotidiani. Magari ci fermiamo a raccogliere un gattino o un cane abbandonati ma chi dorme per strada ai nostri occhi resta trasparente. Questa commedia va a stuzzicare i nostri sensi di colpa. Questi personaggi ci fanno ridere perché ci riconosciamo in loro».

E Ivano, il suo personaggio?
«Io ho il privilegio di fare uno che ha scelto di scappare da tutto ciò che è borghese, perbenismo, tasse. Si è goduto la vita e si è speso tutto in maniera irrazionale ma non è alla deriva mentale. È lucido, intelligente, molto colto. È una bellissima commedia scritta da Gianni Clementi, una delle penne più importanti del teatro contemporaneo».

Lei è uno dei figli artistici di Gigi Proietti: che padre è stato?
«Più che figlio nipote. Quando l’ho incontrato avevo 22 anni e lui 39, ma per noi era già grande. Ed era grandissimo come statura di artista. Gigi aveva rivoluzionato il teatro con “A me gli occhi, please”. Con lui ho condiviso vita e lavoro. Ho avuto la fortuna di avere fatto tre spettacoli da protagonista con Gigi regista ed è stato anche mio testimone di nozze. Fa parte della mia vita: me so’ messo quasi in affido».

Il suo primo ruolo al cinema nel “Marchese del grillo”. Al fianco di Alberto Sordi e diretto da Mario Monicelli.
«Certe cose succedono ma te ne rendi conto solo dopo. Il mio era un piccolo ruolo, il capo delle guardie delle corse delle rane. Sul set io ero preoccupato per queste rane. Stavamo dentro il Quirinale, arriva Sordi e mi fa: “che stai a fa’ qua?”. E io: “devo fare la scena con lei”. In realtà, lui stava provando, era la sua prima battuta».

Il suo primo corto “Exit” ricevette addirittura la nomination all’Oscar.
«Come a Proietti devo molto anche a Monica Vitti, che ho avuto come insegnante alla Accademia. È grazie a lei se ho realizzato questa mia prima esperienza cinematografica. Io ho sempre avuto inizi folgoranti. Il mio primo giorno da regista di un lungo ho diretto Vittorio Gassman».

E la corsa agli Oscar?
«Fu faticosamente raggiunta. Avevamo vinto un concorso internazionale, ma per concorrere agli Oscar il corto doveva essere proiettato almeno per tre giorni in un cinema di Los Angeles. Abbiamo così convinto un esercente, e poi abbiamo scoperto che il film è rimasto in cartellone per mesi. Anche Spielberg andò a vederlo e portò i suoi allievi. Questo ci ringalluzzì. A un certo punto iniziarono ad arrivare a casa le lettere con gli omini d’oro: selezionati tra i primi 20, poi tra i primi 10, infine la nomination. Andammo a Los Angeles, ma la Rai non aveva molto budget. Mentre tutti arrivarono alla notte degli Oscar sulle limousine noi su una Panda celeste con attaccato l’adesivo dell’omino d’oro per poter parcheggiare».

Negli anni Novanta è uno dei registi della rinascita del cinema italiano: non le manca girare un film suo?
«Quando fai cinema non puoi fare teatro. In tutti gli anni ’90 lo avevo messo in standby, poi “Dopo le faremo tanto male” ho preso una pausa che è durata troppo. Ho fatto alcuni corti, ho lavorato tanto come attore, ma ora ci sono dei progetti che stanno per andare in porto».

Sua figlia Emma ha esordito come attrice insieme alla mamma Elena Sofia Ricci: che consigli le dà?
«Quello che dico a tutti gli attori che stanno cominciando. Fare squadra con altri giovani attori, registi, sceneggiatori, registi teatrali. Non si può solo sperare e aspettare che un regista ti scelga. Il tuo futuro non può dipendere solo da quello. Bisogna avere una propria progettualità che ti permetta di fare un tuo percorso».

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