Michele Mirabella: «All’inizio rifiutai Elisir: sono ipocondriaco. Oggi i registi devastano le opere liriche»
Il conduttore radio-tv premiato ad Alghero al Genera festival: «Il mio mestiere è il palcoscenico e ho il dovere di condividere il talento»
Non appena inizia a parlare capisci subito perché, per tutti, lui è il professor Mirabella. Riesce tenerti incollato all’ascolto qualsiasi argomento affronti. Così va dai primi anni ’60, quando Michele Mirabella, allora studente di Giurisprudenza, decise di passare a Lettere. Una svolta umanistica che poi ha segnato tutta la sua carriera che spazia tra teatro, cinema, radio e tv. Ed è proprio per questa sua versatilità e questo suo talento nel divulgare conoscenza che il festival del giornalismo Genera - in programma ad Alghero dal 12 al 15 giugno - ha deciso di attribuirgli il premio nella sezione Scienze, salute e benessere.
Regista, autore, attore, conduttore tv, conduttore radiofonico, divulgatore: quale definizione sente più sua?
«Tutte queste definizioni fanno parte di un mestiere. Un uomo di spettacolo è sempre un intellettuale, poi la strada dipende dalla propria inclinazione, dal proprio piacere di lavorare...».
Renzo Arbore alla stessa domanda rispose: un artista.
«C’è un qualche riferimento rinascimentale a questo atteggiamento che accomuna me, Renzo e qualche altro: la concezione che il palcoscenico è il nostro mestiere. Ma per palcoscenico non dobbiamo intendere solo le quattro assi della scena teatrale. Ognuno di noi, se ce l’ha, deve mettere a disposizione del prossimo il proprio talento nel raccontare la scena, la realtà».
Lei è stato anche docente universitario.
«Per 25 anni. Anche l’insegnamento è una forma di teatro. Io ho avuto la fortuna di avere qualche bravo maestro in questo senso. Mi rispettavano, non senza una certa curiosità, perché in più io avevo il talento istrionico del mestiere dell’attore. Tutta la gente di spettacolo deve essere ricca di questo genere di prestazioni e di queste capacità. E allora finisce che uno nel corso della vita si specializzi e tiri a campare, scegliendo tra tutte le proprie inclinazioni di cui si rende conto di essere titolare...».
Lei quale ha scelto?
«Io sono sempre stato portato per la regia, ma per regia intendo quella che una volta si faceva in teatro. Un tipo di regia che oggi è moribonda. Per non parlare delle atrocità che oggi si consumano ai danni delle opere liriche. Delitti che andrebbero perseguiti per legge».
Addirittura?
«Purtroppo non c’è una disposizione giuridica che difenda l’arte. Molte volte si guarda con simpatia goliardica e quasi fellona alla manomissione intenzionale di un’opera d’arte, che è stata consegnata dalla tradizione all’artista per farla rivivere nella sua identità. E in non in quella del regista».
Lei ha diretto 60 spettacoli, di cui trenta opere liriche.
«Io ho cercato di essere al servizio di quella che luminosamente si chiama la verità del testo. La principale regalia dell’autore è quel dialogo meraviglioso con lui. Io non ci dormo la notte per cercare di dialogare con quel nume tutelare che si chiama autore per essere arruolato tra le persone che lo hanno servito. Adesso le opere sono una follia totale in cui prevale la fantasia inopportuna del regista. Per quanto riguarda attori e cantanti il loro problema è solo subire».
Il regista è solo una delle declinazioni del suo mestiere.
«Io non ho fatto un unico mestiere, ne ho fatti tanti, ma tutti nell’ambito della comunicazione, anche scrivendo 7 o 8 libri. Ricordo sempre una frase che mi diceva mia madre che si rassegnò troppo tardi al fatto che dovessi fare l’artista, salvo poi innamorarsi pazzamente del mio talento: “Tu hai il dovere di diffondere questa eucarestia. La Provvidenza ti ha dotato del talento”. Insomma, il talento è un dono della Provvidenza che ho il dovere di condividere con il pubblico. Non tutti hanno il talento che abbiamo noi, ma è legittimo che tutti provino a fare quello facciamo io, Renzo e altri...».
Arbore torna spesso nei suoi discorsi. Indimenticabile “Il caso Sanremo”, in cui con voi due c’era anche Lino Banfi. Ogni sabato su Rai 1 oltre dieci milioni di telespettatori.
«Quando ci troviamo insieme io, Renzo e altri facciamo compagnie di giro, i gruppi di lavoro. Ma il teatro è questo e noi siamo soprattutto teatranti».
Nella sua carriera c’è anche il cinema: da Sordi a Verdone, nonché l’amico di Troisi in “Ricomincio da tre” e il collega di Fantozzi con Paolo Villaggio.
«Mi divertivo a fare quei film. Erano scorribande amicali con maestri come Sordi, Gassman. Ho avuto il piacere di lavorare con Verdone o con il mio fraterno amico Massimo Troisi. Ci siamo buttati in imprese che fanno parte del mestiere dell’attore e del regista».
E oggi sono pezzi di storia del cinema.
«Sordi è stato un maestro. Ho imparato più in quei sette giorni con lui che in tutta la mia esperienza cinematografica. Parlo di cinema, perché di esperienza di regia in tv e radio ne ho tanta».
Per anni lei si è alternato tra radio e tv, Toni Garrani e Raffaella Carrà. Poi è arrivato “Elisir”. Come nasce l’idea di questa trasmissione di divulgazione medico-scientifica che a settembre compirà 30 anni?
«In realtà non è venuta a me. Ci sono un paio di persone a cui devo tutto: Lucia Restivo e Patrizia Belli. Furono loro, insieme a un direttore di rete intelligente, a chiedermi di mettere il mio talento al servizio della divulgazione scientifica e così scrissi il format. Il direttore mi disse che per come era stato scritto l’unico che potesse condurlo ero io. Dissi no, perché sono un ipocondriaco che ha paura delle malattie in maniera fanatica. “O accetti o non ti rinnovo il contratto”, fu la sua risposta. Improvvisamente ne diventai entusiasta e accettai. Dovevano essere 6 puntate e sono diventate migliaia».
Era un’epoca in cui ancora la gente si affidava ai professionisti e non a Google.
«Il pubblico intelligente non è finito. E poi Google non è divertente. Il talento di “Elisir” è che sono riuscito a fare una trasmissione divertente, nel vero senso della parola, tenendo lontane le paure, le angosce, le ansie con la competenza e rendendo il linguaggio dei medici “santo” per la chiarezza, la forza e la cordialità della scienza. Questo spiega perché noi andiamo avanti da trent’anni».
E ora arriva anche il Premio Genera ad Alghero.
«Amo la Sardegna, ci ho lavorato in passato, a Cagliari, e sono felicissimo di tornare».