Piotta: «La musica è lo specchio della società»
Il rapper romano aprirà il suo nuovo tour a Borutta: «Sono fuggito dal mondo dello spettacolo, non mi sentivo rappresentato»
C’è chi lo ricorda con gli occhiali a specchio di Supercafone, diventato un inno di una generazione alla fine degli anni ’90, chi tra i massimi esponenti della scena rap romana dei primi anni duemila, fino ai brani più recenti che affrontano temi più personali e impegnati. Piotta – al secolo Tommaso Zanello – si è affermato come una delle voci hip hop più longeve e autentiche della scena rap italiana. L’artista romano si esibirà giovedì 27 giugno a Borutta.
Più di trent’anni di carriera, cosa ti spinge ancora a scrivere dischi e a salire sui palchi?
«Dopo tutti questi anni la passione continua a non mancare, l’adrenalina sale sempre, poi ogni data ovviamente è diversa dalle altre. Sicuramente c’è anche la voglia di raccontarmi e di buttare fuori tutto quello che ho inglobato in mesi di scrittura».
Supercafone ti ha fatto raggiungere il grande pubblico, come ti approcci a quel periodo della tua carriera, ha ancora un senso cantare quei pezzi in questo contesto storico?
«In realtà il pezzo più conosciuto è “La grande onda”, è stato il pezzo che ha attraversato ed è conosciuto da tutte le generazioni. Il supercafone invece era un po’ un omaggio alla romanità, ed era anche un modo ironico per prendere in giro i rapper italiani che imitavano quelli americani».
Quindi rimane una canzone attuale.
«Dipende, adesso la musica rap non arriva necessariamente dall’America ma nasce direttamente qui, in alcuni casi è un tipo rap che non mi appartiene».
Un tema che sta tornando attuale è quello dell’indipendenza dal mercato discografico...
«Io ho scelto di rimanere totalmente indipendente, sento in qualche modo di non appartenere a quel sistema. Quando ho toccato il successo e sono entrato a pieno nel mondo dello spettacolo ho pensato “mi aspettavo meglio”, quindi ho sempre preferito tornare tra la “mia” gente».
A proposito di questo, Federico Zampaglione nei giorni scorsi si è espresso sulla questione dei finti sold out e dei biglietti venduti a pochi euro per riempire le platee, cosa ne pensi?
«Ha ragione, ha descritto in maniera accattivante ciò che succede attualmente nell’industria musicale. È una questione che conosco bene, ma il fatto è che quando sei un artista giovane ti consigliano male e cercano di spremerti».
E tu che consigli daresti ai giovani che raggiungono il successo con una hit?
«Di avere come punto di riferimento esclusivamente se stessi. Psicologicamente li capisco benissimo, vorrei dirgli di fare quello che si sentono, senza badare troppo ai numeri. Facciamo l’esempio di Marracash, non scrive delle hit in senso stretto, però riempie i palazzetti e gli stadi lo stesso, l’autenticità premia sempre».
Un altro collega romano, Max Gazzè, cantava “Una musica può fare”, la musica può davvero cambiare il mondo?
«No, per quanto ami la musica non può cambiare la società, ma ne è lo specchio. L’industria musicale ha un approccio capitalistico perché la società è capitalistica. Esiste la trap perché esiste Trump».