Sergio Rubini: «Il festival di Tavolara e il set all’Asinara: che ricordi magnifici»
L’attore sarà alle “Notti a Monte Sirai” di Carbonia per portare in scena “Le città invisibili” di Italo Calvino
La sua cinematografia è un unicum nel panorama italiano, spazia da Fellini a Tornatore, da Minghella fino a Mel Gibson. Sergio Rubini è uno di quegli attori che hanno fatto la storia del cinema italiano (e non solo) rinato dopo il buio degli anni Ottanta. Ora arriva in Sardegna per portare in scena un classico della letteratura, “Le città invisibili” di Italo Calvino. Accompagnato al pianoforte da Michele Fazio, Rubini è la voce recitante dello spettacolo (Elena Marazzita direttore di produzione AidaStudioProduzioni) che sabato alle 21.30 terrà a battesimo la 17esima edizione di “Notti a Monte Sirai” a Carbonia.
Rubini, in cosa consiste la grandezza di Italo Calvino?
«Credo che la grandezza di Calvino, almeno per quello che percepisco io sia da lettore che da interprete di questo spettacolo, sta nel fatto che la sua è una scrittura che nasce dalla scrittura. Non sembra un autore che parte da un’idea preconcetta e scrive, ma uno scrittore che per prima cosa si siede e scrive. Mi sembra agito dalla scrittura. La sensazione che viene davanti ad alcuni suoi libri è che non sono pensati, ma sono scaturiti dalla sua scrittura. Come fosse un medium che in qualche modo permette allo spirito di invaderlo. Calvino è un invasato e questo lo rende inimitabile, unico, sfugge a qualsiasi possibilità di catalogazione. In lui c’è qualcosa di ineffabile, astratto, irriproducibile, mozartiano».
Qual è stata la sua prima impressione quando ha letto Le città invisibili?
«È un libro che è in grado di regalare emozioni di tutti i tipi. Tutte queste città sono le tante anime che abitano dentro di noi. C’è la leggerezza, c’è la morte, ci sono il bene e il male. È un libro che ha quel passaggio finale che tutti i lettori si portano nel cuore. Quando parla dell’inferno, che non è astratto, ma è quello che viviamo tutti i giorni, Calvino dice che abbiamo davanti due possibilità: o lasciarsi andare a quell’inferno o individuare tutto quello che non è inferno, dargli spazio e lasciarlo durare. È un libro che ti dà una indicazione filosofica per sopravvivere».
Il cinema può essere considerato una città invisibile come la intendeva Calvino?
«Il cinema è una città invisibile. Ogni film è una delle città invisibili. E pensare che tanti produttori continuano a ritenere che i film astratti, filosofici non siano adatti al cinema. Per loro l’unica possibilità resta il realismo. Ma il cinema ha la possibilità di differenziarsi perché può raccontare ciò che non si vede. Il cinema è una città invisibile. La peculiarità del cinema è raccontare ciò che non si vede. Quello che si vede lo racconta la televisione».
In mezzo a tanti film viene male parlare di un singolo. Qual è il film che non ha fatto?
«Il prossimo, quello che devo ancora fare. I film che non ho fatto sono quelli che più amo, che più mi mancano. Il nostro è un mestiere simile a quello dell’esploratore. Raggiunto un traguardo si ha subito voglia di riarmarsi, riempire la cambusa e ripartire per un nuovo viaggio. Se un esploratore non esplorasse non sarebbe nulla. Il nostro è un mestiere che si nutre di insoddisfazione ma non è paralizzante. I miei colleghi sono anche Fellini e Kubrick. Se uno si soffermasse su questo se ne starebbe a casa. Invece, tutti noi continuiamo a cercare, aggiungendo un pezzettino a ciò che hanno fatto questi grandi esploratori».
Con “La stazione”, film simbolo della rinascita del cinema italiano, tenne a battesimo il festival di Tavolara 34 anni fa.
«Un’esperienza bellissima, ci sono anche tornato. Mi piaceva quella dimensione molto familiare, che è come è giusto che sia il cinema. Meno tappeti rossi e più familiarità. Meno motoscafi e più gommoni. Questa familiarità aiuta a ricostruire il rapporto fiduciario tra lo spettatore e chi lavora nel cinema. Altrimenti rischia di sopravvivere solo il blockbuster straniero. Quel mio film ebbe la fortuna di fare nascere una nuova alleanza tra lo spettatore e il cinema italiano. Questa alleanza oggi si è rotta. Si è preferito inseguire i ragazzini anziché chi andava al cinema, aprire le multisale e chiudere le sale cittadine. Errori per cui il cinema soffre, ma sono convinto che il format cinematografico vivrà per sempre».
“La Stoffa dei sogni” di Gianfranco Cabiddu invece le fece scoprire l’Asinara.
«Un film bellissimo con un’ottima regia, un copione meraviglioso, in un’isola magnifica e con attori strepitosi. Ed è l’ultimo lavoro che ho fatto con il mio amico fraterno Ennio Fantastichini. Insomma, è un film gioiello che porto nel cuore».