Sassari, il mercato civico sassarese tra dialetto e sapori
Alessandro Tanca: «Sono figlio d’arte cresciuto tra la banchina di Porto Torres e il mercato»
«Io sono figlio d’arte», dice Alessandro Tanca con grande orgoglio, mentre sistema il banco come si fa da più di un secolo. La sua postazione è al fondo del corridoio centrale: è la zona del pesce. La sua famiglia è ricordata dagli anziani del mercato civico di Sassari come la prima rivendita di prodotti ittici in città. Nessuna tradizione marinara alle spalle, niente mare sotto casa: «La mia famiglia è arrivata da Thiesi, ma io sono nato e cresciuto qui, tra il banco di mio padre al mercato storico, la banchina a Porto Torres ancora prima dell’alba a scegliere il pescato del giorno e la bellezza della Sassari di una volta».
La pesca, per i Tanca,quindi, non è origine geografica, ma identità guadagnata sul campo. Suo padre, Salvatore Tanca, ha portato avanti il banco nella storica “pensilina liberty” per quasi cinquant’anni. «Ero ancora nel grembo di mia madre quando ho cominciato a vivere questi luoghi e quello che oggi è il mio mestiere», dice Alessandro. Crescere lì significava imparare prima i nomi del pesce che le lettere dell’alfabeto: sardhina, zarrettu, boipu, zirulia. «Il dialetto era l’essenza dello scambio, della comunicazione, della contrattazione cionfraiola, quell’aspetto unico che caratterizza il sassarese doc. Una parola in dialetto risparmia cento spiegazioni – dice Alessandro – ma oggi si sta perdendo questa tradizione». Una volta il mercato civico era il salotto della città.
«Dal povero al signorotto incravattato, tutti passavano di qui. Ogni banco era una pièce, ogni venditore un attore nato: urlavi, richiamavi l’attenzione, facevi spettacolo». Ma da sempre nel cuore dei ricordi c’è lei, l’imbattibile e la protagonista indiscussa dei menu “mare e brace” dei sassaresi: la sardina. «Quando ho iniziato a lavorare io, costava 400 lire al chilo. Quattromila lire la cassetta intera. Talmente bistrattata, considerata un pesce di scarto – perché ce n’era in abbondanza – che era come la caramella alla menta che ti dava la signora del negozietto alimentari quando non aveva 50 lire di resto.
Allo stesso modo per noi sul banco: ti mancavano 500 lire e dicevi al cliente, con la naturalezza di quel tempo: «Dai, ti doggu un chilo di sardhina e semmu a posthu. Anzi ti fozzu puru un piazzeri». Un salto al mercato era d’obbligo per rendere al meglio i grandi spuntini del fine settimana e arrostire era festa. Le campagne intorno alla città la domenica erano braciere diffuso a cielo aperto e per orientarsi tra una casa e l’altra, la bussola era l’olfatto: «chi buttava le sardine sul fuoco, chi preparava lo zimino… era la prima messaggistica a distanza, il primo Whatsapp sassarese… coi segnali di fumo – racconta sorridendo Alessandro - i profumi svelavano tutto. “Che mangiate lì?” – “Sardhina!”».
Oggi che il mondo è alla rovescia questo stesso pesce abbondante e economico, è diventato sempre più raro e costoso, raggiungendo i 20 euro al chilo «quando si trova» - chiosa Alessandro. Lui è l’ultimo della famiglia dietro il banco. E lo sa. «Finché qualcuno verrà qui e mi chiederà una bella zirúlia e non una razza, allora vorrà dire che nel nostro mercato civico vive ancora l’anima di Sassari».

