Fabio Testi: «Leone mi tagliò, che sbronza con Gregory Peck. Dissi no a Domenica in: la tv mi intimoriva»
L’attore protagonista del grande cinema italiano si racconta. A Tuili riceverà il premio alla carriera
Il suo primo ruolo importante fu cancellato, ma lui non si diede per vinto. Anzi, da quel momento ha cominciato a macinare un film dietro l’altro, in Italia, in Europa, in America. Fabio Testi è da sessant’anni protagonista del grande cinema italiano e per questo motivo oggi a Tuili riceverà il Premio Cavallino della Giara insieme, tra gli altri, a Gianfranco Vissani, Licia Colò, Cristiana Ciacci, figlia di Little Tony, e al generale Stefano Scanu.
Testi, lei cosa voleva fare da grande?
«L’astronauta. O il pilota. Avevamo un amico di famiglia comandante all’aeroporto di Verona e ogni tanto mi portava a volare. Era il mio sogno. Poi ho cambiato idea».
Ai tempi quali erano i suoi miti del cinema?
«Gregory Peck era il mio idolo da ragazzino. Più avanti l’ho anche conosciuto. Mentre giravo a Parigi con Romy Schneider stavamo nello stesso albergo. Una sera abbiamo iniziato a parlare e ci siamo presi una sbronza a base di Bloody Mary. Siamo andati avanti fino alla mattina».
Il suo primo approccio con il mondo dello spettacolo?
«Io nasco a Peschiera del Garda e sul lago avevano costruito dei galeoni su cui giravano film spagnoli sui pirati. Io avevo 14 anni e il divertimento era giocare nel lago, nuotare, poi quando arrivavano le troupe ci prendevano per fare le comparse».
Il primo regista a credere in lei fu Sergio Leone ma la sua parte in “C’era una volta il west” fu tagliata: fa ancora male?
«Il copione originale prevedeva tre bande: una guidata da Charles Bronson, una da Henry Fonda e l’altra da me. Ma quando facemmo il provino io non legavo con gli altri attori, sembravo il protagonista di un altro film. Ormai però avevo firmato il contratto e decisi di rimanere sul set, anche perché l’ultima cosa che volevo era litigare con Leone. In quei tre mesi in Spagna ho avuto la possibilità di conoscere questo mondo».
La svolta con “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica: e fu Oscar.
«L’Oscar mi ha aperto le porte del cinema internazionale. Fino ad allora non avevo capito quali grandi opportunità potesse darti la statuetta. Da quel momento iniziai a essere richiesto da molte produzioni internazionali. “Fabio Testi? Ah, quello dei Finzi Contini”. E mi prendevano».
Charlotte Rampling, Romy Schneider, Dominique Sanda, Claudia Cardinale, tutte star con cui ha diviso il set.
«Donne meravigliose, fantastiche, fragili come tutte le attrici. C’era una collaborazione totale. Più grandi sono le dive e più sono professionali».
Di Peck ha già detto, gli altri grandi incontri della sua vita?
«Sicuramente Jean Gabin, che era anche lui un idolo: io facevo il bandito e lui il commissario. E poi Robert Mitchum, Rock Hudson, Robert De Niro. Ho lavorato con molti americani, super professionali, e tutti a disposizione del giovane Testi».
La bellezza è stata un limite?
«Potrebbe esserlo stata per qualche critico. Ma come dico sempre: se ci sono tanti brutti stupidi, perché non ci potrebbe essere qualche bello intelligente? Non si fa tanto cinema come ho fatto io se uno è scemo. Il cinema è una giungla piena di rischi, difficilissima da affrontare. Io ho sempre puntato su professionalità e preparazione, le uniche armi grazie a cui si può andare avanti».
Quest’anno è tornato al grande cinema in concorso a Berlino con “Reflection in a dead diamond”: cosa ha provato?
«È stata una bellissima esperienza. La storia era un po’ particolare, mi hanno convinto i registi. E finalmente sono andato in concorso a Berlino. Ero stato un po’ dappertutto, da Venezia a Cannes, mancava solo Berlino. Mi ha fatto piacere. Anche perché è stata la dimostrazione che, nonostante la veneranda età, ho ancora tanto da fare».
Oggi a Tuili le daranno un premio alla carriera.
«Sempre un piacere, se poi arriva dalla Sardegna... qui ho tanti amici. L’affetto dei sardi mi commuove: sarà che io sono un freddo uomo del nord...».
Un rimpianto nella carriera?
«Rifarei tutto quello che ho fatto. Forse spenderei un po’ di tempo in più per perfezionarmi nel lavoro. Ma mi sarei divertito meno. Io ho sempre detto di voler dedicare il 51 per cento a me e il 49 alla carriera. Sono sempre rimasto coerente, anche perché ho avuto la fortuna di vivere il periodo più bello del cinema».
È vero che anni fa rinunciò a condurre Domenica in?
«Forse quello è stato un errore. Noi del cinema non credevamo molto nella tv. Bisognava improvvisare e noi eravamo abituati ai copioni. Forse sbagliando non ho creduto di essere all’altezza. Gianni Boncompagni me lo chiese più volte, avrei dovuto condurre l’edizione dopo quella di Edwige Fenech, ma non me la sono sentita. Eppure c’era il grosso dirigente Rai che mi diceva: sarai il nuovo Baudo».
Ha fatto reality in Italia e Spagna: ne accetterebbe un altro?
«Non lo so, anche perché io ho fatto la prima Isola quando non si sapeva nulla. Furono i miei figli a convincermi».
Nella sua vita c’è stata anche una piccola parentesi politica: lo rifarebbe?
«Fu Berlusconi a chiedermelo. Eravamo dei buoni conoscenti dai tempi della tv: tenni a battesimo la prima Corrida di Corrado. E anche lui voleva facessi tv, ma dissi sempre no. Quella volta accettai di fare una lista a Verona per dare una mano al centrodestra. Ma non ci fu bisogno: Flavio Tosi vinse con una percentuale bulgara. Però porto nel cuore l’esperienza della campagna elettorale: la gente mi chiedeva lavoro per i figli, la sedia a rotelle per la nonna. Lì ho capito quanto potrebbe essere nobile la politica e quanto non lo è».
Le piace Giorgia Meloni?
«Non mi piace più. Sulla guerra di Gaza non ha fatto quello che dovrebbe fare la rappresentante degli italiani. Due anni fa ero l’unico a Venezia con un cartello che denunciava cosa accadeva a Gaza. Sono stato censurato. Io non voglio parteggiare per nessuno, ma non voglio che ci sia un massacro di bambini».
Visto che si può fare un’intervista senza parlare dei flirt?
«(ride) Ho fatto cento e passa film, otto anni di teatro, musical in Spagna, ma alla fine alla gente interessa di più con chi sono stato. Ma essendo io un attore è ovvio che abbia avuto più relazioni con chi fa il mio stesso lavoro. È così per ogni professione».
