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Cagliari

La storia

Pina, il lavoro a 15 anni e le malattie: a 100 anni sorride alla vita

di Matteo Cabras
Pina, il lavoro a 15 anni e le malattie: a 100 anni sorride alla vita

La neocentenaria cagliaritana festeggiata da figli, nipoti e pronipoti: «Sono sempre guarita perché non potevo permettermi di morire...»

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Cagliari C’è una donna che cammina ancora leggera tra le vie di Cagliari, con lo sguardo fiero di chi ha guardato la vita negli occhi e non ha mai abbassato lo sguardo. All'anagrafe Giuseppa Palla, per tutti oramai nonna Pina. Il 4 maggio ha spento tutto d'un fiato cento candeline. La sua vita è un racconto denso. Pina è cresciuta tra mura austere e voci gentili ed ha imparato presto la forza del raccoglimento, la disciplina e la dignità. Sua madre, Lisetta, abilissima nassiarora – costruiva nasse per le anguille – portava dentro una ferita antica: da bambina era stata lasciata dalla madre naturale e adottata da una signora che la crebbe con affetto e rigore. Quando, anni dopo, la madre naturale tornò per riprenderla, le dissero che la bambina era morta. Una bugia, crudele come solo certe protezioni sanno essere. Un dolore mai raccontato fino in fondo, che Lisetta si portò dentro per tutta la vita, come un sasso liscio in fondo al cuore. Pina non ha mai fatto domande alla mamma. "Io sono nata per combattere, non per lamentarmi", ripete ancora oggi, con la voce roca ma estremamente viva.

Cominciò a lavorare a 15 anni, imparando a cucire tra le vie del centro di Cagliari, in via Siotto Pintor. La vita non le fece sconti: contrasse due volte la malaria, una da bambina e una al rientro dallo sfollamento a Villamar durante la guerra. Arrivò a Sant’Antioco da sposa, giovane e innamorata di Antonio Siciliano, un uomo di mare dalle origini carlofortine, conosciuto nel 1948 in via Baylle a Cagliari. Antonio era spesso lontano: prima militare, poi imbarcato da civile. Ma l’amore non si misurava in distanze, bensì in fedeltà. Insieme hanno cresciuto una famiglia numerosa, intrecciando giorni semplici e tempeste silenziose. Durante l’ultima gravidanza, Pina tinteggiava le pareti di casa fino a poche ore prima del parto, pennello in mano, la schiena spezzata ma la volontà dritta come un pino in tempesta. Portava in grembo la sua quarta figlia, e già nei mesi precedenti era piegata dal dolore: coliche renali, ogni passo una battaglia. Nessuna cura, solo resistenza. Alla nascita della bambina, i medici scoprirono che il rene era ormai compromesso: nel 1964 le fu asportato. «Avevo troppo da fare per fermarmi», racconta. La guerra non le passò accanto: la travolse. Bombardamenti, fame, case diroccate, paura. Lei era lì, a canticchiare sotto voce le sue canzoni per coprire il suono delle sirene. Poi il tifo. Poi il colera. Da ultimo anche il Covid. «Sono guarita da ogni male perché non avevo tempo di morire», sorride oggi, sfiorando la medaglia del rosario che porta sempre al collo. E mentre il mondo cambiava pelle, Pina restava fedele alla sua: capelli raccolti, mani segnate, dignità intatta. Ha cresciuto quattro figli, ha visto nascere sette nipoti e due pronipoti. Vedova da dieci anni, cammina ancora da sola, si affaccia alle sagre con occhi da bambina e ride quando la musica inizia, come se il tempo non potesse nulla contro di lei. In una sala feste del capoluogo, ieri, c’erano i suoi figli — uomini e donne divenuti forti a immagine sua — i nipoti, i pronipoti, e una miriade di amici e conoscenti venuti a Cagliari da mezza Sardegna per abbracciarla. Una torta, una carezza, una lacrima. E quella frase, sussurrata come un comandamento laico per le giovani generazioni: «Tutto quello che ho l’ho costruito senza avere niente. La vita mi ha insegnato a resistere, ma l’amore mi ha insegnato a restare». E forse, in questo frammento, c’è la spiegazione di come si arriva a cento anni. Da eroi silenziosi. 

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