Comunicato Stampa: Dove mai è andato quell’uomo, i racconti di un’Albania di sogni infranti e identità perdute
Dove mai è andato quell’uomo è un’opera unica nel suo genere: Artur Likuraj , scrittore albanese, ormai da più di vent’anni in Italia, è in grado con la sua forza espressiva di dare vita a racconti nitidi, strazianti e al tempo stesso nostalgici di tempi e luoghi ormai lontani , ma sempre vivi nella memoria. Per fare ciò ricorre a un italiano fortemente influenzato dalla propria lingua d’origine, capace di creare sfumature e suggestioni che vanno oltre il periodare a cui siamo solitamente abituati.
Viene confermata, dunque, l’intuizione del Gruppo Albatros il Filo , già editore del primo romanzo di Likuraj, dal titolo Albin e il piccolo uccellino . Già nella sua opera d’esordio l’autore raccontava emozioni tormentate, ponendo l’accento sulle difficoltà di un percorso di crescita scandito dal senso di inadeguatezza e dal peso delle aspettative , il tutto però narrato con la delicatezza delle favole, tra animali parlanti e creature di varia natura. Dove mai è andato quell’uomo conserva quella stessa cura per le emozioni, ma le narra in una veste più matura, raccogliendo storie e testimonianze reali o immaginando la vita in tutta la sua durezza.
Nella potenza espressiva di Likuraj, resa ancora più efficace attraverso l’utilizzo di una lingua su misura , potremmo ritrovare dei punti di contatto con Vincenzo Rabito, autore del sorprendente romanzo Terra Matta : se quest’ultimo – attraverso una lingua inerudita, nella quale si confondono l’italiano e il siciliano – fu capace di narrare decenni interi di storia con l’autorevolezza di una voce capace, di spiccare tra le altre senza urlare, di una simile forza è pervasa questa raccolta di racconti, passi in punta di piedi che lasciano impronte profonde su una terra che non sarà mai più come prima .
Il primo racconto, che dà anche il titolo all’intera raccolta, è basato sui racconti del nonno dell’autore. Ci muoviamo in un “ tempo quasi cancellato dalla memoria ”, dove Namik, il protagonista, altro non vede se non la desolazione attorno a sé. Proprio desolazione, solitudine e disorientamento sono i sentimenti principali che animeranno questo e tutti gli altri racconti, dove si sentono ancora troppo vicini il fischio dei bombardamenti e le urla straziate di civili e soldati. Un incontro, la diffidenza e poi ancora l’assenza , ma nella nebbia dell’inverno – o nella polvere ancora densa del conflitto – si fa strada la luce dell’ umana collaborazione : la cura di un soldato ferito porta con sé il conforto di non essere più soli , di aver conservato quel briciolo di umanità che la guerra, in ogni tempo, porta via con sé.
L’attualità dell’opera di Likuraj, nel tempo in cui infuria il conflitto in Ucraina, si fa sempre più forte: l’opera racconta però tutto ciò che non è possibile vedere al telegiornale o nei documentari, mostrando scene di vita privata , che si insinuano nel riserbo della solitudine forzata, imposta dalla crescente diffidenza nei confronti dell’altro. Impossibile, durante la lettura, non pensare alle atmosfere oscure e inospitali della Trilogia della Città di K.
, il capolavoro di Agota Kristof.
Anche lì dove incontriamo l’ amore , come nel racconto che vedrà protagonisti Aron e Adele, leggiamo sempre una nostalgia latente , come se la ragazza che si allontana senza salutare il suo amato si trasformasse nella metafora di quell’Albania perduta , ormai esistente soltanto nella dimensione del ricordo, delle memorie più dolci.
Dove mai è andato quell’uomo non è però soltanto un racconto di umane vicende, ma anche una vera e propria denuncia sociale , che trova sempre l’occasione di scagliarsi contro quel potere che siede su poltrone in velluto mentre il popolo muore di stenti: «Mentre mi opprimevano, dentro di me si costituiva il messaggio che voglio condividere con voi; sulla pelle del volgo pesano le folli passioni dei quelli che desiderano affermarsi dominatori, e schivare i loro dolori, non dobbiamo dimenticare che non siamo diversi, ma viviamo allo stesso modo il dolore e la gioia, il rimpianto e l’amore, il bene e il male. Accettare che ti mutano questi sentimenti, è come immergersi volontariamente nella negazione di sé, ed è impossibile finché sei umano».
Assistere alla devastazione della propria terra infonde nel cuore delle donne e degli uomini il desiderio di ricominciare , di spostarsi altrove nella speranza di una vita migliore, se non per sé almeno per i propri figli. Si fa strada il sogno dell’Occidente , di quella terra al di là del mare che fa sentire piccolo, infinitesimo, chi la guarda dall’altro lato dell’Adriatico. Quell’ Italia da raggiungere a tutti i costi, che incarna il miraggio di una terra in cui vivere finalmente con dignità , con un lavoro e senza la paura di perdere ogni cosa da un momento all’altro. Un’Italia, però, ricca di contraddizioni e lati oscuri , dove la burocrazia è dipinta come lenta e kafkiana, in cui l’iter per ottenere il permesso di soggiorno è per l’autore avvilente e limitante. È questo lo stato d’animo che viene infuso in un personaggio libero e sognatore come Eris: il suo fascino per i colossi della cultura quali Dante, Michelangelo o Leonardo Da Vinci, il sogno delle grandi città e lo stupore di fronte ai panorami stupendi visti durante il viaggio che da Bari lo porta al Nord lo rapiscono immediatamente. L’uomo si sente però respinto da tanta bellezza , costretto a svestirsi della propria identità : il viaggio affrontato per trovare sé stesso si ridimensiona in poche parole nella dicitura “migrante economico”. «Già presentarsi in questura, un emigrante economico, per il “Permesso di Soggiorno” che gli garantiva solo il diritto di lavorare, a Eris suscitava umiliazione, perché presumeva non esser considerato come un operaio normale, ma come una persona che doveva essere tenuta sotto controllo. L’indifferenza agghiacciante che incontrava nei vani della questura, come fosse un oggetto, gli dissipava tutta la sua personalità, lo rendeva nulla. Anche il passato di una persona costituisce una parte del suo presente, e ignorarlo lo fa staccare dalla sua anima, lo rende indistinto, impercettibile. Non poteva odiare nessuno per tale considerazione, né il suo paese che la sorte scaraventò nell’eresia, né il paese dove si era recato per avvertire la sua personalità, ma le politiche che si reggevano sul sacrificio dell’individuo». Scrive l’autore nel racconto Il richiamo di essere .
L’opera di Likuraj non tralascia nessuno degli aspetti emotivi dello status di “ migrante ”, oscillando tra l’“ essere diventato ” e il “ non essere più ”. Il figlio di Ervin è infatti ormai un ragazzo quando il padre decide di portarlo con sé a conoscere la sua città di origine: in silenzio passeggiano tra i borghi e le vie di una terra che riconosce, ma che ormai non conosce più.
«Dietro quel desiderio, restava impassibile nel perlustrarla, la sua mancata conoscenza per il luogo divenuto nativo per suo figlio. Insisteva che il figlio lo conoscesse e lo improntava nella memoria per alleviarsi nel suo compito come padre, perplesso ad adempiere il suo ruolo; narrando per legarlo fortemente con il suo luogo nativo, non essendo protagonista di niente. Era forte l’ostinazione di incutergli il desiderio di legarsi con il luogo nativo, presentendo che così si potesse placare il suo vuoto rodente che gli persisteva nell’anima. Il suo paese nativo insieme con i suoi ricordi, si trovava lontano, separato dall’Italia dal mare e nella città nativa di suo figlio si avvertiva estraneo. Anche se vivendo, aveva imparato storie non se la sentiva di raccontargliele, perché gli pareva servissero solo a dimostrare unione con il posto dove vivevano», scrive l’autore nel racconto Distanti .
Sono racconti sofferti dove le emozioni si inseguono senza tregua: lacrime, sangue e sudore che si mescolano per tracciare il solco di una vita dura oltre ogni limite. Il desiderio di affermare sé stessi e la propria identità , però, non potrà mai essere messo a tacere.
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