Omicidio Dore, i Rocca: «Il dna a tutto il paese, paghiamo noi»
I genitori dell'imputato: «Siamo stanchi di sentire accuse verso Francesco senza la prova scientifica sulle tracce trovate. Per Yara fatti 18mila prelievi. A Gavoi siamo di serie B?»
NUORO. «Siamo stufi di sentire bugie e di vedere Francesco accusato di un reato mai commesso. E di vederlo accusato senza la prova scientifica regina che reggerebbe tutto il castello accusatorio: la prova del Dna. Per questo, rivolgiamo un appello agli inquirenti: fate il Dna a tutto il paese, allargate i prelievi. Perché non è possibile che ci si fermi ad appena 400, quando per altre vicende italiane, come il caso di Yara Gambirasio si è arrivati a 18mila. Siamo forse cittadini di serie B, qui in Sardegna? Fate i prelievi necessari: ci accolleremo noi le spese».
Una tazzina di caffè tra le mani, in bocca l’amarezza di un anno intero trascorso, dicono, a combattere contro un muro di bugie e omertà. Seduti nel salotto di casa, con un enorme finestra che si affaccia sul verde del colle nuorese di Sant’Onofrio, la famiglia Rocca per la prima volta lancia un appello. Un appello che trasuda speranza e ancora tanta voglia di credere nella giustizia. Il giorno dopo la nuova udienza del processo che vede il loro Francesco accusato di essere il mandante dell’omicidio della moglie, Dina Dore, i Rocca, nonostante le testimonianze che finora non giocano a loro favore, sono decisi a non cedere le armi. «E lo facciamo – sottolineano mamma Mariuccia Marchi, papà Tonino Rocca, e la loro figlia Anna – perché siamo sicuri dell’innocenza di Francesco. Ma siccome sinora abbiamo sentito solo fandonie, vorremmo che si tornasse alla prova scientifica, che finora in questa vicenda manca. Perché le indagini hanno provato che manca ancora all’appello il killer. Ovvero colui che ha lasciato una “formazione pilifera” sullo scotch che ha incerottato Dina. Finora è stato confrontato con appena 400 Dna, ma è evidente che sono pochissimi, per questo chiediamo agli inquirenti di allargare il cerchio. Ci accolleremo tutte le spese».
Ma nel frattempo, il processo che vede Francesco Rocca accusato dell’omicidio va avanti. Giovedì si è celebrata una nuova udienza. In aula ha deposto il dirigente della squadra mobile nuorese Fabrizio Mustaro. E attraverso le sue parole è emerso il racconto di cinque anni di indagini, 400 prelievi di Dna, centinaia di persone intercettate, almeno sei piste investigative battute – due ogliastrine, una che portava a Ovodda, una a Olzai, una a Orani, una che conduceva a un terreno conteso – con una predilezione particolare, almeno per i primi quattro anni d’inchiesta, per i legami tra la malavita barbaricina e quella della vicina Ogliastra. Una pista corroborata anche da una lettera anonima arrivata a Lanusei all’allora procuratore Domenico Fiordalisi. E i nomi di banditi di spessore come Raffaele Arzu e Attilio Cubeddu che spuntavano fuori anche se alla fine non erano approdati a nulla. «In tanti anni – spiega il vice-questore alla corte d’assise erispondendo alle domande del pm Danilo Tronci – abbiamo seguito tantissime piste. Ma le informazioni che abbiamo raccolto non ci sono mai arrivate dal paese. Gavoi, su questa vicenda, era un paese ermeneticamente chiuso. Nessuno ci aveva mai dato informazioni. Le uniche informazioni ci provenivano da Francesco Rocca. Era lui che ci aveva fatto anche il nome di Raffaele Arzu. Ci aveva detto che glielo aveva fatto Raffaele Muscau. Ci aveva detto che Muscau era disponibile a dargli una mano per scoprire cosa c’era dietro l’omicidio e che lo avrebbe messo in contatto con Raffaele Arzu. Tutte le informazioni, insomma, ce le dava Rocca». Il dettaglio, per l’accusa, non è di poco conto: secondo la tesi del pm Tronci, infatti, Rocca in quel periodo stava collaborando in modo intenso con gli investigatori con il solo intento di depistare le indagini. Secondo la difesa di Rocca, rappresentata dagli avvocati Mario Lai e Angelo Manconi, invece, lo spirito collaborativo di Rocca derivava da un sincero desiderio di svelare gli autori del terribile omicidio, e anzi in diversi casi questa collaborazione era stata sollecitata dalla polizia. Certo è che è proprio in questo contesto, dice Mustaro, che spunta fuori il nome di Gavino Pira, allevatore di Gavoi, finito nei guai con la giustizia per altre vicende.
«Il nome di Gavino Pira me lo aveva fatto Francesco Rocca – spiega ieri Mustaro – Ce lo aveva indicato lui come persona che poteva nutrire rancori nei suoi confronti per una vicenda legata a un terreno conteso. Mettemmo lui sotto intercettazione e anche il suo giro di amicizie, e alcuni suoi contatti con la malavita ogliastrina. Tra gli intercettati c’erano Alan Corona, Marco Pira, Gianmatteo Corona, Fabrizio Sedda, Toni Marchi. Quest’ultimo, aveva visto passare una Mitsubishi Pajero nei giorni prima del delitto davanti a casa Rocca, in via Sant’Antioco». «Ma su 144 Pajero vendute in quel periodo – spiega Mustaro – solo 27 corrispondevano al colore verde che ci era stato riferito. Prelevammo il Dna ai proprietari ma nessuno risultò compatibile con quello che era stata trovato ritrovato nel garage dei Rocca». «Tra coloro ai quali avete prelevato il Dna c’è anche quello di Giancarlo Sardu? È di Sindia, cognato dell’ispettore di polizia Antonello Cossu» gli chiede l’avvocato Lai. «Non ricordo» risponde Mustaro. «Si può accertare oggi se Sardu all’epoca dei fatti avesse un Pajero?». Mustaro risponde di sì, e la corte d’assise gli chiede di controllare quel dato. Comunicherà il risultato nelle prossime udienze. ©RIPRODUZIONE RISERVATA