La Nuova Sardegna

Nuoro

2015. Orune, i demoni di una generazione prigioniera di orizzonti vuoti

Piero Mannironi
2015. Orune, i demoni di una generazione prigioniera di orizzonti vuoti

L'omicidio di uno studente di 19 anni e la sparizione di un altro giovane a Nule. I ragazzi inseguono il mito di una malintesa "balentia" e per loro le armi riempiono il vuoto della parola

01 dicembre 2021
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La mattina dell’8 maggio 2015 uno studente di Orune, Gianluca Monni, 19 anni, viene ucciso a fucilate nel centro del paese mentre aspetta l’autobus per andare a scuola a Nuoro. Un delitto maturato altrove, come sarà confermato dalle indagini e dai processi, con le condanne dei giovani Paolo Enrico Pinna di Nule e Alberto Cubeddu di Ozieri. All’omicidio di Gianluca Monni è legato un altro tragico giallo, la sparizione del nulese Stefano Masala

Orune sconta fatalmente la condanna del suo passato. Paese simbolo del "malessere", resta incatenato a un luogo comune che banalizza perfino le tragedie. Per questo motivo, quando un assassino mascherato ha spento a fucilate i 19 anni di Gianluca Monni, è stato quasi normale pensare che quella fiammata di odio incandescente avesse la sua origine nel ventre oscuro di Orune. È stato cioè naturale pensare ancora una volta a un paese perennemente sospeso sull'abisso, dove il futuro fa paura perché gli orizzonti appaiono vuoti di senso, con l'eterno ritorno di un demone antico che crea un grumo oscuro che nessuna pietà può sciogliere. Come una dannazione, una condanna infinita.

Si è perfino rinnovata la falsa convinzione che in nessun altro paese della Barbagia sia possibile, come a Orune, morire per nulla. Per un gesto, uno sgarbo al bar, uno sconfinamento di bestiame, un banale litigio. Un'incomprensibile follia nella quale l'ira diventa furia, la rabbia diventa impeto incontenibile e distruttivo.

E invece, ora che con il passare delle ore le indagini stanno lentamente diradando la nebbia che avvolge la morte di Gianluca Monni, si intuisce una realtà diversa. Non è Orune che deve espiare ancora una volta le sue colpe antiche perché questa volta il paese è una vittima. Luogo di morte sì, ma di una morte arrivata da altrove. E si profila uno scenario nel quale le radici della violenza non affondano nelle ombre del passato di un luogo, ma in una generazione smarrita. Di giovani e giovanissimi che inseguono il mito di una malintesa "balentia" e per i quali le armi riempiono il vuoto della parola. L'arma, dunque, come emozione e fascinazione, come mezzo per l'affermazione di presunte ragioni. Come affermazione di esistere. I bar e l'alcol diventano poi i luoghi e i catalizzatori di un rito nel quale il baccano uccide la parola e diventa parodia di un grido d'angoscia che desertifica praterie di speranza.

E, come dice il filosofo Umberto Galimberti, «dietro questa catastrofe culturale e di sentimenti c'è un'intera generazione che non ha saputo capire che i giovani, i figli, sono legati ai padri e alle madri dal "colloquio". Che è fatto, è vero, solo di parole. Ma le parole non si dicono solo, si ascoltano anche. È cioè il farsi condurre là dove la parola dell'altro ti conduce. Se poi, invece della parola c'è il silenzio, allora ci si deve far condurre da quel silenzio, perché anche l'assenza della parola dice qualcosa. Spesso è la voce di una disperazione».

Nel gennaio 1992, dopo il drammatico ferimento di due carabinieri nella notte di Capodanno, Bachisio Zizi, intellettuale raffinato e sensibile, scrisse che in Orune leggeva i sintomi di una comunità rotta, nella quale gli anziani avevano perso l'autorevolezza e l'influenza sui giovani: «Ora sono ridotti a fare la guardia al focolare spento, che è la disgrazia più grande per gli uomini del mio paese. Ciò che annienta è il tempo vuoto che i giovani tentano di riempire con le loro scelleratezze».

Parole che oggi non possono essere riferite a Orune. O meglio, non solo. Perché descrivono la crisi generale di una generazione.

E a questo punto è inutile, anzi, è sbagliato andare a evocare temuti fantasmi. Dire cioè che Orune è Barbagia, ma la Barbagia non è Orune. Una contraddizione solo apparente. Quando Bachisio Zizi sintetizzò con queste parole l'anima profonda del suo paese tormentato intendeva dire che Orune porta dentro di sé lo spirito della Sardegna profonda, ma lo interpreta e lo declina in un modo originale. Perfino unico. «Se è vero che siamo gente di eccessi - diceva Zizi - le nostre passioni spesso sono una rivolta contro la mediocrità e contro la caduta degli slanci generosi. Non intendo fare l'elogio della dissennatezza orunese, che tanto ci ha segnato: sto cercando ragioni di vita e non di morte nei nostri traboccamenti». Eccola, dunque, la "diversità" orunese: la convivenza impossibile di intelligenze solari e di straordinarie generosità con un'anima buia, capace di manifestarsi in straripanti esplosioni di violenza che alimentano un vento cattivo, avido di morte.

E la prova di questa anima divisa è nell'alta percentuale di laureati e nell'altrettanto alta percentuale di croci di morti ammazzati in camposanto. E in questa equazione apparentemente illogica Orune mostra la sua natura di paese tragico, dove le stagioni della speranza vengono continuamente interrotte e umiliate dall'atteso inverno della ragione. Dopo gli infiniti e sanguinosi anni delle faide e delle guerre all'interno del mondo della malavita, questo paese triste, appollaiato su un costone roccioso che si affaccia sulla dolce vallata di Marreri, sembrava aver trovato una strada nuova, un desiderio di riscatto e di liberazione. Anche e soprattutto attraverso i giovani. E che oggi ci siano giovani che parlano, aiutando a fare luce sulla morte di Gianluca, significa che forse qualcosa sta cambiando.

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