La Nuova Sardegna

Olbia

Il piccolo borgo dove si riscopre la vita

di Antonello Palmas
Il piccolo borgo dove si riscopre la vita

La comunità per il recupero dei tossicodipendenti di Maltana, gioiello di efficienza. Dove coltivando l’orto si cura l’anima

30 ottobre 2013
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OLBIA. L’arcobaleno rappresenta la speranza che spunta dopo la tempesta. E la comunità di recupero dalla tossicodipendenza “Arcobaleno” proprio questo offre a chi proviene da esperienze terribili come quella della droga o dell’alcolismo e chiede disperatamente aiuto per uscirne. Il suo fondatore e direttore don Andrea Raffatellu parla come di una figlia di questo piccolo “borgo” nato a Maltana ormai 23 anni fa da un’associazione che porta lo stesso nome e che invece ha compiuto quest’anno ben 31 anni. «Per me è la più bella che c'è in Sardegna».

Ordine, pulizia, bellezza e tranquillità sono le sensazioni che emanano dalla collinetta che ospita Arcobaleno: è sormontata da un luminoso edificio principale con dieci stanze da letto, un grande soggiorno con la libreria, un’ampia sala da pranzo e la cucina. È il risultato dell’ampliamento della piccola sede originaria. La mobilia è stata realizzata dagli stessi ragazzi ospitati, così come le ringhiere e gli infissi creati nella attigua falegnameria, tra le attività principali per occupare il tempo dei giovani ospiti, insieme alla serra, all’orto, ai cavalli e agli asinelli che pascolano sul pendio.

Vi si alternano dieci operatori, tra i quali ci sono educatori e una psicologa (c’è una convenzione con l’Asl), a tempo pieno e ai quali è affidato il grosso del lavoro («occorrono conoscenze profonde e qualifiche specifiche per un impegno tanto gravoso», spiega don Andrea). Sono loro a guidare sotto il coordinamento di don Andrea e l’aiuto di una quindicina di soci-volontari una realtà la cui forza è però quella di funzionare anche grazie al lavoro dei suoi stessi ospiti. La comunità Arcobaleno è in grado di accogliere al massimo 25 persone, anche se quelle attualmente in cura sono 18, con un paio in ingresso e un altro paio in uscita.

«La persona è al centro – dice don Raffatellu –. Tutti gli ospiti provengono da esperienza di droga o alcol, mentre non ci occupiamo di aspetti clinici e psichici di una certa portata. Non ci occupiamo di dipendenza da gioco, per la quale ancora non si ritiene opportuno utilizzare un approccio forte come quello della comunità». La missione è quella di un programma predisposto per fare sì che il tossicodipendente giunga a riappropriarsi della propria personalità in modo da gestire liberamente e criticamente la sua vita. Escluso il ricorso a farmaci o sostanze sostitutive degli stupefacenti.

Si comincia con dei colloqui nel centro di accoglienza in città, oppure i ospedale o in carcere se necessario, per studiare reali intenzioni e necessità dell’aspirante ospite che chiede di disintossicarsi. La prima fase, quella della disintossicazione fisica, avviene in strutture pubbliche per un paio di mesi. Quindi entra in ballo la comunità. Inizia un percorso che dura circa due anni e mezzo fatti di regole da seguire e di colloqui nei quali si cerca di far emergere le problematiche del singolo, diverse per ciascuno. «Non ci sono ricette, magari esistessero» dice don Raffatellu. Nei primi sei mesi, i più duri, non possono vedere nessuno, telefonare, scrivere lettere, vedere tv o giornali. Il tempo deve essere dedicato solo a se stessi. L’obiettivo è sconfiggere il mostro: «Per riuscire a trovare la propria strada – dice don Andrea – occorre prima fortificarsi».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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