La Nuova Sardegna

Olbia

Tribunale

Arrestato e in carcere tre volte, poi assolto: «Mi hanno distrutto la vita»

di Tiziana Simula
Arrestato e in carcere tre volte, poi assolto: «Mi hanno distrutto la vita»

Mario Decandia, 93 anni di Loiri Porto San Paolo, racconta la sua odissea giudiziaria

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Loiri Porto San Paolo «Mi hanno flagellato, mi hanno distrutto la vita. Perché mi hanno fatto questo? A me che ho sempre rispettato tutti e ho aiutato tante persone... Le dico una cosa: più onesto di me non c’è nessuno, come me sì, ma più di me no. E se non è vero quello che sto dicendo, che Dio mi faccia morire in questo momento». Alza gli occhi al cielo con la voce tremante Mario Decandia, 93 anni che compirà a Ferragosto, la metà dei quali trascorsi in un estenuante braccio di ferro con la giustizia. A vincere, alla fine, è sempre stato lui, ma il prezzo che ha pagato da innocente è stato pesantissimo: indagato, arrestato, finito in carcere, processato per anni.

Non è successo una sola volta, né due, ma per ben tre volte e sempre per fatti gravissimi: un tentativo di sequestro nel 1980, un sequestro con la morte del rapito, dieci anni dopo, e ultimamente, con sentenza del maggio scorso, per tentato omicidio per presunti dissidi – questo era il movente secondo l’imputazione – legati al mondo della caccia. Era accusato di aver esploso un colpo di fucile contro un conoscente, Salvatore Fideli, perché gli aveva impedito di entrare nei suoi terreni per cacciare. In tutti e tre i casi, Mario Decandia è sempre stato assolto con la formula più ampia “per non aver commesso il fatto”.

Giustizia è stata fatta anche in quest’ultimo processo, dunque, a 93 anni, ma intanto la sua vita è stata profondamente segnata da accuse non vere da cui si è dovuto difendere con tutta la sua forza. «Mi sono ammalato, un giorno o l’altro mi troveranno morto qui», dice seduto nel giardino della sua casa di Giaddoni, una borgata a metà strada tra Vaccileddi e Santa Giusta, nelle campagne di Loiri Porto San Paolo. E racconta i tormenti di mezzo secolo di vita, le accuse ingiuste subìte, l’accanimento giudiziario di cui dice di essere stato vittima. «Sono distrutto, hanno distrutto me e la mia famiglia. Non passa giorno in cui io non pensi a ciò che mi hanno fatto. L’assoluzione non cancella nulla, alleggerisce solo un po’ la sofferenza. Porta un po’ di luce, ma rimane il danno morale».

Vedovo da trent’anni, autonomo e lucidissimo nonostante varie patologie che hanno aggredito il suo corpo negli ultimi anni, Mario Decandia, vive da solo, e a curarsi di lui è il figlio Elio che abita poco distante dalla sua casa e che va a trovarlo spesso durante la giornata. Ha sempre fatto il commerciante e l’intermediario immobiliare, e a Vaccileddi aveva aperto il primo negozio di alimentari. Ora dedica tutto il suo tempo alla vigna e a coltivare frutta e verdura sforzandosi di vivere con serenità l’ultimo scampolo di vita.

A ogni udienza in tribunale a Tempio è sempre stato presente, accompagnato dal figlio. «Ma non ho mai parlato in aula. Il mio avvocato mi diceva “zio Ma’, state tranquillo vedrete che si risolve tutto anche questa volta”. Io ero fiducioso, ci ho sempre creduto: non c’erano testimoni contro di me, io non ce l’avevo contro Fideli».

Il suo racconto parte da lontano. Dal 1980. Non aveva neanche cinquant’anni. E da quel momento è cominciato il suo calvario. Era il tempo dei sequestri di persona. Un banchiere svizzero, Dionigi Resinelli, e sua moglie Nadia, con villa a Cala Girgolu, sfuggono a un tentativo di sequestro. I banditi li attendono a casa con una macchina pronta per portarli via, ma il banchiere, per nulla impaurito, si scaglia contro di loro con calci e pugni e alla fine il commando desiste e fugge via. Mario Decandia viene indicato come il basista. Finisce in carcere a Badu ’e Carros per un anno intero. Il processo si conclude con alcune condanne e un’assoluzione. La sua. “Per non aver commesso il fatto”.

Dieci anni dopo, la storia si ripete. Altro sequestro di persona e anche questa volta Decandia finisce dentro l’inchiesta. È il sequestro di Peter Rainer Besuch, imprenditore tedesco rapito a Porto Taverna e mai tornato a casa. Un sequestro-omicidio per il quale finiscono alla sbarra in quattro. Per Decandia si aprono ancora una volta le porte del carcere: due mesi in cella, a Tempio, poi ai domiciliari. Era il tempo in cui il magistrato Luigi Lombardini era impegnato nella lotta al banditismo sardo e ai sequestri di persona. «Era venuto a parlare con me, in carcere – ricorda Decandia –. Gli avevo detto “Lombardini, guardi che io non c’entro niente”. Lui mi aveva creduto». Nell’aprile del 1988 il tribunale di Tempio assolve i quattro imputati: due con formula dubitativa, e due, lui compreso, con formula piena.

L’incubo ritorna nel 2016. Decandia aveva 84 anni suonati e mai avrebbe pensato di ritrovarsi ancora una volta faccia faccia con forze dell’ordine, arresti domiciliari, aule giudiziarie e giudici. Per la Procura di Tempio, è lui l’uomo che il 6 ottobre del 2016 imbraccia un fucile, raggiunge la casa di Salvatore Fideli, a “Lu Pecorili”, e spara una fucilata caricata a pallettoni verso l’abitazione. I proiettili vengono deviati dalla serratura della porta, e non colpiscono il padrone di casa. All’origine del tentato omicidio, secondo le accuse, dissidi legati alla caccia, una delle grandi passioni di Decandia. Dopo 8 mesi di arresti domiciliari e 9 anni di processo è emersa «l’assenza di elementi di prova che Decandia Mario sia l’autore dell’aggressione a mano armata alla porta dell’abitazione di Fideli Salvatore», come si legge nelle motivazioni della sentenza firmata dalla presidente del collegio, Caterina Interlandi. «Non mi capacito, perché hanno voluto addossarmi la colpa. Non avevo nessun astio nei confronti di Fideli. Cercavano un colpevole e hanno preso il più fragile».

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